Ogni giorno condividiamo video e foto senza accorgerci che possiamo commettere inconsapevolmente reati. Ecco perché condividere il video di uno stupro è reato.
Polemiche per la diffusione del video dello stupro avvenuto a Piacenza. Il procuratore ha aperto un fascicolo in quanto la diffusione del video è riconducibile a un’ipotesi di reato, non ha però chiarito per quali reati intende «indagare».
Ci proviamo quindi noi, anche con l’intento di favorire una migliore conoscenza dei reati che si possono commettere in rete senza averne consapevolezza .
Il caso
Il fatto è noto ed è avvenuto a Piacenza dove un uomo richiedente protezione internazionale ha stuprato una donna in strada. Il video è stato ripreso da un abitante della zona che ha prontamente chiamato i soccorsi.
L’errore fatale, e che ha creato putiferio, è stato l’aver pubblicato il video sui social, quando sarebbe bastato consegnarlo alle forze dell’ordine per ricavare prove inconfutabili del fatto. Lo stesso video purtroppo è stato condiviso dai giornali e soprattutto da una nota esponente politica che della lotta all’immigrazione, in quanto causa di disordine pubblico, ha fatto il suo cavallo di battaglia.
A finire nella polemica è Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Il video, è bene sottolinearlo, è stato condiviso con immagini oscurate, ma non sono oscurate/modificate le voci. Proprio per questo molti, tra cui il vice presidente della Regione Emilia Romagna Elly Schlein, candidata alla Camera, ha sottolineato che la diffusione del video mostra una mancanza di rispetto e una strumentalizzazione della vittima di reato, mentre le dovrebbero essere dati solidarietà e sostegno. Non è mancato l’invito ai giornali a non diffondere ulteriormente il video. Di fatto sono numerosi i giornali che stanno rispondendo all’appello di Elly Schlein e hanno rimosso il video, così come è stato rimosso da Twitter.
A rincarare la dose è Enrico Letta, segretario del Pd. Il sindaco di Piacenza ha sottolineato che con la diffusione del video la donna è stata stuprata due volte perché si vede costretta a rivivere l’episodio potendo riconoscere le proprie urla.
Garante della privacy: avviata l’istruttoria per verificare la violazione della privacy
Oltre alle reazioni politiche, che possono essere dettate da interessi di varia natura, occorre verificare se la diffusione del video rasenti o meno ipotesi di reato, non solo a carico di esponenti politici, ma di tutti coloro che lo hanno diffuso, complice una mancata conoscenza diffusa di quello che può essere considerato il “diritto della rete”.
Il Garante della privacy ha sottolineato di aver avviato un’istruttoria che mira ad «accertare eventuali responsabilità da parte dei soggetti che a vario titolo e per finalità diverse hanno diffuso il video», con il fine di verificare se tale diffusione ha solide basi giuridiche che la giustifichino. Il Garante ha quindi sottolineato che, nel caso in cui la diffusione sarà ritenuta illegittima, assumerà i provvedimenti di sua competenza.
Si intende quindi verificare se la diffusione è stata utile alle indagini. In realtà il “sospettato” è stato fermato subito, non è stata necessaria una diffusione del video per identificarlo.
Perché condividere il video di uno stupro è reato?
Ma qual è il reato configurabile?
Il primo concetto da tenere a mente è il diritto alla riservatezza che intende proteggere dall’altrui intromissione nella sfera intima e privata. Uno stupro è un fatto molto privato, sebbene sia pubblicamente perseguibile come reato. La Corte di Cassazione con la sentenza 5658 del 1998 configura il diritto alla riservatezza come diritto della personalità che trova il suo ancoraggio nell’articolo 2 della Costituzione, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si realizza la sua personalità.
La materia foto/video è trattata nella normativa sulla privacy (attualmente Codice privacy nel decreto legislativo 196 del 2003, integrato con il Gdpr - Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati 2016/679). La norma richiede che per poter filmare o fotografare una persona è necessario richiederne il consenso.
Non è necessario il consenso per scattare fotto o girare video in luoghi pubblici, come nel caso di piazze e strade, quindi nel caso in oggetto, ma anche in questo caso per la pubblicazione occorre rendere irriconoscibili le persone, per le foto basta oscurare i volti, oppure ottenere il consenso.
Nel caso in oggetto i volti sono stati oscurati, restano però le voci. Dobbiamo quindi chiederci: la voce rende riconoscibile la persona? L’articolo 4 del Gdpr stabilisce che si considera identificabile la persona che può essere «identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale».
Rientra la voce tra questi dati? Sicuramente in molti casi le persone sono identificabili nella cerchia più o meno stretta di contatti anche attraverso la voce.
La normativa inoltre richiede che coloro che si occupano del trattamento dei dati personali devono adottare misure idonee a garantire il corretto e sicuro utilizzo dei dati. L’articolo 4 paragrafo 1 punto 2 del regolamento 2016/679 (Gdpr) sottolinea che per trattamento si intende anche la registrazione dei dati, tra cui la voce. Questo l’ambito principale in cui può configurarsi il reato.
Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti
Occorre a questo punto citare anche l’articolo 612 ter del Codice penale (introdotto con articolo 10 comma 1 della legge 19 luglio 2019 n. 69), che punisce chiunque «dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000».
Il comma 2 stabilisce che la stessa pena si applica a chi dopo averli ricevuti a sua volta li diffonde. Il comma 3 prevede come aggravante il caso in cui il reato sia stato commesso con strumenti informatici o telematici, infine, il comma 4 prevede l’ulteriore aggravante della commissione a danno di una persona in stato di inferiorità psichica o fisica (come può essere una donna traumatizzata da uno stupro).
Infine, il decreto legislativo 196 è stato modificato con il decreto legge 139 del 2021 che ha introdotto l’articolo 144 bis. Questo prevede il reato di revenge porn che stabilisce: «Chiunque, compresi i minori ultraquattordicenni, abbia fondato motivo di ritenere che registrazioni audio, immagini o video o altri documenti informatici a contenuto sessualmente esplicito che lo riguardano, destinati a rimanere privati, possano essere oggetto di invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione attraverso piattaforme digitali senza il suo consenso, ha facoltà di segnalare il pericolo al Garante, il quale, nelle quarantotto ore dal ricevimento della segnalazione, decide ai sensi degli articoli 143 e 144 del presente codice».
Non manca chi invece ha sottolineato che potrebbe configurarsi il reato di molestia previsto dall’articolo 660 del codice penale il quale stabilisce che: «chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a € 516».
In questo caso la possibilità che la vittima di reato senta in rete l’audio con le urla di disperazione del momento in cui viene stuprata, arreca grave danno e disturbo alla stessa. Tale reato è procedibile d’ufficio, senza querela di parte e questo perché considerata anche una violazione dell’ordine pubblico.
© RIPRODUZIONE RISERVATA