Le primarie repubblicane in Georgia hanno allontanato le speranze di Trump e della vittoria per la nomination nel GOP.
Le primarie repubblicane che si sono tenute nell’ultima settimana di maggio in Georgia hanno dato un verdetto pesantissimo per le speranze di Trump di vincere la nomination nel GOP. La Georgia è lo Stato in cui l’ex presidente aveva scatenato la sua campagna più dura contro quello che lui aveva definito il “furto” della sua vittoria dovuto a massicce frodi elettorali. Il governatore Brian Kemp e il segretario di Stato Brad Raffensperger erano stati bollati come traditori per aver certificato la vittoria di Joe Biden.
Trump la riteneva illegale, anche dopo che gli organi statali di controllo, che erano in mano ai due repubblicani citati, non avevano rilevato, nel ricalcolo delle schede, un numero di frodi tale da ribaltare l’esito del primo spoglio.
Ecco perché la sfida all’interno del partito repubblicano per assegnare la nomination alle due cariche di governatore e di segretario di Stato era diventata un test di peso nazionale. Kemp e Raffensperger si sono ripresentati, e Trump ha fatto una campagna senza risparmiare fondi e comizi perché i due venissero sconfitti dagli sfidanti che vantavano il suo esplicito endorsement. Le urne non potevano parlare più nettamente. Brian Kemp ha ottenuto il 73,7% dei voti, contro il 21,8% dell’uomo di Trump, David Perdue. Raffensperger ha vinto con il 52% contro il 33% del favorito di Trump, Jody Hice, e ha persino evitato il ballottaggio previsto nel caso un concorrente non raggiunga la maggioranza assoluta.
L’affermazione, che è ricorrente leggere sulla stampa italiana, secondo cui Trump ha in mano il partito repubblicano, è esagerata a voler essere prudenti, e sbagliata a un esame più accurato. Il test della Georgia è di gran lunga il più significativo in questa fase di primarie, soprattutto se ci si ricorda del fatto che, dopo il voto del novembre 2020, un Trump inviperito per la batosta nazionale e per la sconfitta in questo Stato tradizionalmente “rosso” diede al governatore Kemp e al segretario di Stato Raffensperger la colpa della debacle.
Così comportandosi favorì, anzi stimolò, l’assenteismo di una fetta di elettori repubblicani al ballottaggio di inizio gennaio 2021, in cui erano in palio i seggi di entrambi i senatori dello Stato. La defezione dei trumpiani più fanatici in Georgia diede la vittoria ai due sfidanti democratici, e ciò ribaltò addirittura la maggioranza in Senato regalando l’intero Congresso a Biden.
Quasi due anni dopo, gli elettori repubblicani georgiani hanno respinto l’offensiva di Trump e dato piena fiducia ai due leader locali suoi espliciti critici. È un messaggio piuttosto evidente che l’opposizione repubblicana a Biden e al partito democratico non deve passare necessariamente da Donald Trump per conquistare i seggi in Congresso e le altre cariche elettive.
Una prima dimostrazione era stata la vittoria di Glenn Allen Youngkin, senza endorsement di Trump, alle elezioni per il governatorato della Virginia nel novembre 2021. E questa tornata di primarie sta confermando che l’astro dell’ex presidente mostra cedimenti, magari non tutti da copertina come la disfatta in Georgia, ma concreti. La macchina digitale di Trump per la sua raccolta fondi sta rallentando: una analisi del New York Times ha rilevato che la media dei contributi quotidiani online sul canale per le donazioni repubblicane WinRed è in calo mese dopo mese da sette mesi: dai 324mila dollari al giorno affluiti nel settembre scorso è scesa ai 202mila di marzo, e ciò mentre Trump ha aumentato la sua attività politica. La percentuale che va all’ex presidente su tutto ciò che viene raccolto dai repubblicani, parallelamente, si restringe: il suo comitato politico aveva ricevuto il 19,7% dei contributi al Gop negli ultimi quattro mesi del 2021 e si è ridotto al 14,1% nei primi tre mesi di quest’anno.
Contemporaneamente, di riflesso si sta facendo più visibile la concorrenza. Mike Pence, il vice che ha rotto con il suo boss in occasione del nefasto attacco al Campidoglio del 6 gennaio, ha partecipato ai comizi di Kemp in Georgia, una presenza che è stata uno schiaffo a Trump e che ha mostrato come nel mainstream del GOP si stia consolidando un “trumpismo senza Trump”.
Ron DeSantis, altro trumpiano doc negli anni passati, ha raccolto 100 milioni di dollari per la sua campagna di rielezione a governatore della Florida, ma non è un segreto che il rinnovo del mandato che otterrà quasi sicuramente nel novembre 2022 sarà il trampolino per lanciare la sfida presidenziale del 2024.
Nelle cariche di vertice del partito - si pensi all’ex segretario di Stato Mike Pompeo e alla ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley - sta prendendo quota la generazione dei fedelissimi dell’amministrazione Trump che guardano ad un futuro senza di lui. Ma non sono solo i citati professionisti della scena politica, che agiscono per se stessi, a scaricare Donald. Lo fa anche chi, alla guida di organizzazioni conservatrici, lo ha - idealmente - appoggiato in passato. Uno è Cole Muzio, presidente del Frontline Policy Council, gruppo cristiano della Georgia: “Trump ha avuto quattro buoni anni e ho votato due volte per lui” ha detto al New York Times, aggiungendo però che la frustrazione di sentire sempre l’ex presidente rivangare con ossessione il passato lo ha convinto ad andare oltre, a puntare ora su “qualcuno che guardi avanti”. E ha citato, per l’appunto, incontri organizzati dal suo gruppo con DeSantis, Pence e Pompeo per valutare chi appoggiare a tempo debito.
Per la verità gli endorsement di Trump hanno prodotto, in generale, numerosi vincitori in molti altri Stati. Ma per lo più si è trattato di candidati “normali”, la cui vittoria non ha fatto scalpore. Un esempio è la ex addetta alle relazioni con la stampa della Casa Bianca Sarah Sanders, figlia dell’ex governatore Mike Huckabee, che è destinata a diventare governatrice dell’Arkansas, uno stato solidamente repubblicano, con l’appoggio sia di Trump sia dell’establishment del partito.
Statisticamente, i personaggi sostenuti da Donald hanno raccolto in media circa un terzo dei voti espressi in ogni primaria: i fedeli lealisti non sono pochi, ma neppure il segno di un plebiscito. E ci sono vincitori, come J.D. Vance in Ohio, ma anche sconfitti, come Jody Hice in Georgia, Janice McGeachin in Idaho e Charles Herbser in Nebraska. E un candidato arrivato al ballottaggio, Mehmet Oz in Pennsylvania.
La lezione della Georgia, e non solo quella, deve insomma far riflettere Trump sui rischi di una nuova discesa in campo. La vittoria nelle primarie del 2016 fu un terremoto politico inatteso. Dopo la sconfitta alle presidenziali del 2020, quando Trump arrivò al voto da nominato d’obbligo con il sostegno dell’intero partito, le primarie del 2024 sarebbero una falsa replica del 2016: Trump non è più una sorpresa, il suo passato è un misto di successi politici dimenticati e di un carattere personale bocciato da 80 milioni di votanti più anti Trump che pro Biden.
Nel Gop c’è una strisciante sensazione di “Trump fatigue”, di stanchezza di Trump. Il tempo lavora contro di lui e a favore di chi spera nella sua progressiva marginalizzazione. E ce ne sono tra i repubblicani, più che tra i democratici, perché Trump sarebbe forse l’unico del Gop a perdere ancora, dopo 4 anni di Biden.
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