Gazprom è solo il detonatore di un ordigno «artigianale» che l’Ue si è costruita e piazzata in casa da sola. E l’agenda green adottata senza transizione graduale già oggi ci rende ostaggi di Pechino
Incurante del rischio di essere identificato come il principale responsabile del caro-bollette che sta salassando l’Italia e l’Europa, il popolo dei FridaysforFuture ieri è tornato nelle piazze. Rischio decisamente in aumento di intensità, quantomeno a giudicare dal totale disinteresse tributato dai media al timido riaffacciarsi sulla scena del popolo di Greta.
Certo, elezioni e rischio nucleare alle porte rappresentano eventi catalizzanti in grado di far scivolare in secondo piano pressoché qualsiasi argomento. Uniamoci poi la Fashion Week milanese ed è chiaro che l’appeal di qualche migliaio di studenti che si prende il primo venerdì scolastico di libertà appare decisamente residuale. Ma al centro della crisi, così come della campagna elettorale, c’è proprio il nodo energetico. Il costo del gas legato alle sanzioni contro la Russia e le fluttuazioni tutte politiche del petrolio, quindi se le tesi dei giovani difensori del Pianeta fossero davvero degne di nota per trovare soluzione e non slogan, i media avrebbero come al solito dedicato fiumi di parole e retorica ai cortei.
Così non è stato. E i media, a differenza di quanto si possa pensare, sono furbi. Nel senso che fiutano l’aria con l’attitudine del capo indiano che porge l’orecchio al terreno. E sanno che l’esasperazione della gente per quelle bollette insostenibili è davvero giunta al livello di guardia. Detto fatto, i FridaysforFuture sfilino pure. Ma la notizia finisca, silenziosamente e alla chetichella, nel dimenticatoio. E ci sono delle ragioni che giustificano questo atteggiamento. Ragioni che sembrano spazzare via con il passare dei giorni settimane intere di retorica rispetto alle responsabilità totali e unilaterali della Russia nell’impennata dell’inflazione energetica.
Se infatti questo grafico
mostra quale potrebbe essere stato il motivo di festeggiamento che ha portato il popolo di Greta a sfidare la sorte (e gli automobilisti), ovvero l’ennesimo record di emissione di bond sedicenti ESG, in realtà contenenti di tutto come nella miglior tradizione della salsiccia subprime, ecco che la totale impasse a livello europeo rispetto al price cap ha cominciato a instillare i primi dubbi sulle reali intenzioni e i reali interesse in gioco.
E gratta gratta. alla fine del lungo percorso ideologico e propagandistico, ecco spuntare fuori questo:
la dimostrazione plastica di come l’Europa abbia scientemente scelto la propria dipendenza dal gas russo, oggettivamente a buon mercato e assolutamente affidabile a livello di fornitura, quando poteva tranquillamente proseguire e implementare una strada di indipendenza energetica. Magari non l’autarchia immediata, stante l’aumento della domanda industriale e delle società in evoluzione ma certamente un livello in grado di evitare il cappio russo che ci siamo stretti attorno al collo. E che ora ha cominciato ad asfissiarci.
E quell’immagine parla chiaro: il calo della produzione europea dei casi ha coinciso con l’esplosione della tematica ambientale e del riscaldamento globale, di fatto una sorta di sindrome Al Gore che ha tramutato l’Europa nella cavia da laboratorio della retorica ambientalista americana. Ma se la Cina e l’India hanno bellamente continuato a emettere e produrre in barba a tutti i protocolli internazionali, gli Usa hanno subdolamente invaso il pianeta con i loro peana sulla salvezza della foca monaca, accompagnati da testimonial hollywoodiani in lacrime. ma - al contempo - hanno lasciato che l’Alaska continuasse a venire esplorata, il Golfo del Messico bucherellato e che, soprattutto, il fracking (inquinante come pochi) garantisse la transizione rapidissima non solo verso l’indipendenza energetica ma anche verso il nuovo status di Passe esportatore.
L’Europa, invece, bloccava il carbone e chiudeva le centrali nucleari tedesche, il tutto sotto pesante pressione della lobby verde, divenuta esiziale politicamente in molti Paesi e spinta da martellanti campagne social e mediatiche. Detto fatto, l’avvento di Greta Thunberg ha garantito a quella parabola di declino un vero e proprio sprofondo, altresì permettendo al Cremlino di trattarci come cagnolini al guinzaglio: se Vladimir Putin ha un alleato al mondo, questa è proprio la 17enne pasionaria svedese. Non a caso, i Paesi scandinavi stanno allegramente banchettando sulle difficoltà dell’Europa continentale, visto che la Norvegia sta garantendosi surplus secolari vendendo il suo gas a peso d’oro sullo spot market, stante la necessità collettiva di riempire gli stoccaggi prima dell’inverno.
Ma se il disastro ormai è compiuto, attenzione a quello in arrivo. Potenzialmente ben peggiore. Proprio la corsa dissennata verso una transizione ecologica in realtà senza alcun periodo di transizione, sta garantendo a un altro soggetto geopolitico un’egemonia futura a dir poco esiziale. E questa tabella parla chiaro:
se la Russia ha potuto per anni mettere al riparo i propri conti grazie all’export di energia, ecco che la Cina già oggi ha il monopolio assoluto sui metalli necessari alla rivoluzione green. Da un lato essendo player globale nella produzione di terre rare, dall’altro avendo il controllo su raffinazione e lavorazione di tutti gli altri. Insomma, se liberarci del giogo energetico russo sta già contemplando il costo enorme di una recessione senza precedenti e di una Germania costretta a nazionalizzazioni di massa delle utilities, stante il suicidio sul nucleare dell’era post-Merkel, ecco che la china ambientalmente talebana imposta dal Green New Deal della Commissione Ue sta di fatto preparando il terreno per un rapido e terminale passaggio dell’Europa dalla padella russa alla brace cinese.
E i media questo lo sanno, come lo sa la politica. Quindi, meglio tacere. Il problema è che questo ultimo grafico
sembra confermare come anche le opinioni pubbliche comincino - giocoforza e in punta di salassi energetici - ad avere qualche certezza in più rispetto alle reali responsabilità storiche e strategiche per la situazione attuale. Mentre infatti Ursula Von der Leyen pontificava da Princeton rispetto agli strumenti in suo possesso per redimere eventuali alzate d’ingegno elettorale degli italiani, ecco che proprio la Commissione Ue pubblicava la la stima flash per il mese di settembre dell’indicatore della fiducia dei consumatori nell’UE e nell’area euro.
Il calo per quanto riguarda l’UE è stato di 3,5 punti, mentre quello per l’eurozona di 3,8 punti. Rispettivamente a -29,9 e -28,8, i due indicatori sono oggi al loro minimo storico. Dunque, la gestione di Ursula Von der Leyen ha stabilito il record di far precipitare la fiducia dei consumatori europei sotto le scarpe come nemmeno dopo il fallimento Lehman o nel pieno della crisi greca. Sarà per questo che i media hanno oscurato il ritorno in piazza del popolo di Greta? Comincia la ciclica discesa dal carro del vincitore che la realtà sta rapidamente tramutando non solo in perdente ma anche in capro espiatorio? Pechino, nel frattempo, ride. E si permette il lusso di invocare pace, dialogo e negoziati.
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