Ritorno a Keynes

Francesco Maggio

23 Maggio 2022 - 17:00

Il pensiero di John Maynard Keynes, tra i più influenti economisti, è tornato al centro del dibattito grazie alla pandemia da Covid-19.

Ritorno a Keynes

È stato il più influente economista del secolo scorso. Ma dopo una quarantina d’anni di neoliberismo imperante sembrava ormai che il pensiero di John Maynard Keynes fosse definitivamente tramontato, che non ci fosse più spazio in economia per le sue teorie e, soprattutto, per i suoi insegnamenti pratici che prevedono un ruolo di primo piano dello Stato.

Poi è arrivata la pandemia e ha bloccato tutto (o quasi): commercio, attività industriali, attività professionali, turismo, viabilità per terra, viabilità per mare, viabilità aerea. A quel punto se non fosse intervenuto lo Stato con politiche keynesiane di ristoro e di redistribuzione il Paese non avrebbe retto, i cittadini non ce l’avrebbero fatta. Si è quindi tornati a prestare attenzione all’attualità dei suoi scritti, dei suoi moniti, della sua visione.

Che in realtà non era mai del tutto scomparsa, aveva solo perso «capacità di irradiazione» come disse una volta uno dei suoi massimi studiosi e allievi Salvatore Biasco: «Viaggiavamo su una macchina solida, ma siamo rimasti senza benzina».

Perché era finita la benzina? Perché, come ha spiegato lo stesso Biasco, «negli anni Settanta una nuova narrazione conquistò il senso comune. Si cominciò a dire che la crescita mondiale si era fermata per eccesso di statalismo e regole, che i sindacati creavano disoccupazione e che lo Stato sociale richiedeva troppe tasse. Furono messaggi semplici che portarono ad affidarsi al mercato e a destrutturare il lavoro riducendo le protezioni. Un’intera classe politica se ne appropriò, Thatcher e Reagan per primi. L’egemonia culturale fece il resto».

È indubbiamente vero quel che dice Biasco, che la composizione sociale stava cambiando, diventando sempre più frammentata, individualista, meno solidale. Che l’eccesso di statalismo (si pensi all’industria pubblica, a un “carrozzone” di partecipazioni statali come l’Efim che si “guadagnò” la fama di ente spazzatura prima di diventare oggetto di una liquidazione durata molti anni) aveva prodotto dei veri e propri mostri di inefficienza, clientelismo, burocrazia. Che anche in Italia spesso acquisiva senso pieno la famosa frase che Ronald Reagan pronunciò al suo primo giuramento da presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio del 1981: «Lo Stato non è la soluzione ai nostri problemi, lo Stato è il problema».

Ma è anche vero che non ci volle molto tempo per constatare come l’altra faccia della medaglia del neoliberismo si chiamava disuguaglianza, eliminazione di programmi di welfare, aumento del tasso di povertà. Eppure ormai il Verbo era uno solo, non confutabile per definizione perché, appunto, Verbo: il mercato è tutto, il mercato può tutto. E guai a imbrigliarlo in regole, regolamenti, obblighi.

C’è voluta una pandemia planetaria (ma anche una crisi finanziaria come quella del 2008) per rendere a tutti evidente che solo un approccio keynesiano avrebbe offerto qualche spiraglio di salvezza. E che, il tanto decantato mantra dei liberisti per cui nel “lungo periodo” il mercato tutto aggiusta, significava ben poco se c’era da lottare contro il tempo per salvare vite umane. Mai come in questo frangente è apparsa in tutta la sua veridicità la famosa frase di Keynes per cui «nel lungo periodo saremo tutti morti».

Ecco allora che ritorna fondamentale rileggere Keynes. Perché sapeva rivolgere uno sguardo sulla società con lenti molto più potenti di quelle di un economista. Come scrive in un suo recente libro Zachary D. Carter (“The Price of Peace, Money, Democracy, and the life of John Maynard Keynes”, edizioni Random house), «Keynes è ricordato come un economista perché attraverso l’economia esercitò il massimo dell’influenza. Ma la sua agenda economica era posta al servizio di un progetto sociale più ambizioso: non la tassazione o la spesa pubblica ma la sopravvivenza di quella che chiamava civiltà».

È talmente giusto ciò che scrive Carter che i primi a mettersi di traverso a questo progetto furono proprio i suoi colleghi economisti, che non tolleravano che Keynes volesse (e riuscisse a) vedere così lontano. Loro, al contrario, preferivano starsene comodi nella propria torre d’avorio a discettare di numeri e teorie algide, lontano dalla vita reale. Per questo, come ha ricordato un altro grande biografo di Keynes, il nostro Giorgio La Malfa, che gli ha dedicato un Meridiano Mondadori, un giorno del 1934, intervistato da un programma radiofonico della Bbc, Keynes si tolse, è proprio il caso di dirlo, ben più di un sassolino dalle scarpe, autoproclamandosi peraltro un eretico:

«Gli economisti sono divisi in due grandi categorie: da un lato ci sono quelli che credono che nel lungo periodo il sistema economico in cui viviamo si autoregoli anche se con scricchiolii, gemiti e sussurri. Al capo opposto vi sono invece coloro i quali respingono l’idea che si possa parlare in qualche senso significativo di una tendenza dell’attuale sistema economico ad autoregolarsi. Questi ultimi sono gli eretici, perché contestano una dottrina solida di cui non è facile individuare i punti deboli. Il pensiero dominante è rinchiuso in una cittadella fortificata senza abbattere la quale non vi è la possibilità di far prevalere il buon senso. Io mi schiero con gli eretici. Sono convinto che il loro istinto e il loro fiuto li conduca verso le conclusioni giuste, ma mi sono formato nella cittadella e ne riconosco il potere e la forza. Mi è impossibile considerarmi soddisfatto finché non avrò individuato la pecca in quella parte di ragionamento ortodosso che porta a conclusioni che mi sembrano inaccettabili».

Naturalmente Keynes non mollerà mai l’osso, non disdegnerà di criticare la cittadella fortificata e i suoi “abitanti”, di sollevare polveroni e fare provocazioni. Così quando Roy Harrod, il suo primo grande biografo (nel 1951, gli altri saranno Malcom Moggridge nel 1992, Robert Skidelsky con tre volumi pubblicati tra il 1983 e il 2000, Giorgio La Malfa nel 2019), dopo aver letto le bozze della “Teoria generale” gli consiglia di attenuare le polemiche contro gli economisti “ortodossi”, Keynes gli risponde che semmai, al contrario, dovrebbe alzare ancora di più un polverone perché, afferma, «solo dalla controversia che nascerà riuscirò a far comprendere quello che dico».

Bisogna dargli atto di esserci riuscito appieno: a sollevare polveroni, a farsi capire e poi oggi anche a rimpiangere, prima di tornare a essere “rispolverato” in tutta fretta.

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