Si possono trasferire i dipendenti ad altra sede?

Paolo Ballanti

22 Agosto 2022 - 15:27

Hai ricevuto una lettera di trasferimento e non sai come comportarti? Ecco in quali casi l’azienda può spostare i dipendenti ad altra sede e quando invece è vietato.

Si possono trasferire i dipendenti ad altra sede?

Il trasferimento si concretizza in un mutamento della sede di lavoro del dipendente, definitivo e senza limiti di durata. L’evento non è da confondere con il distacco, caratterizzato invece dal datore di lavoro distaccante che pone temporaneamente a disposizione di un altro soggetto (distaccatario) uno o più lavoratori, al fine di soddisfare un proprio interesse.

Al pari del distacco, tuttavia, il trasferimento può riguardare uno o più dipendenti e dev’essere altresì segnalato al ministero del Lavoro, attraverso l’invio del modello telematico «Unificato - Lav» o «UniLav», entro 5 giorni.

Oltre alle condizioni riservate dalla Legge numero 104/1992 in favore di lavoratori disabili o loro familiari, la contrattazione collettiva può imporre ulteriori limiti e tutele per i dipendenti, ad esempio con l’introduzione di un periodo di preavviso.

Sempre il Ccnl (o la singola azienda) ha la possibilità di riconoscere specifiche indennità o rimborsi spese ai lavoratori interessati. Alcune di queste somme godono di un regime contributivo e fiscale di favore.

Da ultimo è importante non dimenticare che il trasferimento appartiene alla platea dei provvedimenti che l’azienda può adottare al termine di un procedimento di contestazione disciplinare.

Analizziamo in dettaglio quando e come si possono trasferire i dipendenti ad altra sede aziendale.

Quando si può realizzare un trasferimento individuale?

Il trasferimento individuale del lavoratore, realizzato su domanda dello stesso, non è soggetto a particolari vincoli di legittimità.

Discorso diverso quando è il datore di lavoro a disporre il trasferimento. Quest’ultimo può essere realizzato a patto che:

  • avvenga da un’unità produttiva ad un’altra;
  • sia motivato da ragioni tecniche, organizzative e produttive.

La contrattazione collettiva può intervenire dettando:

  • ulteriori condizioni di legittimità per tutti i dipendenti o alcune categorie di essi;
  • un periodo di preavviso a beneficio del lavoratore, prima che il trasferimento sia esecutivo.

Cosa significa «unità produttiva»?

La Cassazione (sentenze del 22 marzo 2005 numero 6117 e del 22 aprile 2010 numero 9558) ha definito l’unità produttiva come l’entità aziendale che, eventualmente articolata in organismi minori, anche non situati nel medesimo comune, si caratterizza per condizioni di indipendenza tecnica ed amministrativa tali che, in ciascuna sede, si esaurisce il ciclo produttivo tipico.

Non si considerano quindi unità produttive le articolazioni dell’azienda (uffici, reparti o stabilimenti) che, nonostante siano dotate di autonomia amministrativa, sono destinate a scopi unicamente strumentali o a funzioni ausiliarie rispetto ai fini dell’impresa.

Quali motivi sono alla base del trasferimento?

Il trasferimento individuale disposto dal datore di lavoro è legittimo a fronte di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che:

  • devono sussistere nel momento in cui il trasferimento viene disposto;
  • devono essere oggettive, non motivate da valutazioni soggettive.

La giurisprudenza di Cassazione (sentenze del 26 marzo 1998 numero 3207, del 6 luglio 2011 numero 14875, del 24 ottobre 2019 numero 27345) ha sostenuto la legittimità del trasferimento a fronte di un’incompatibilità tra il dipendente ed i suoi colleghi, tale da generare tensioni e contrasti, idonei a creare disagi nel regolare svolgimento dell’attività produttiva.

Sempre la Suprema Corte ha precisato (sentenza del 28 gennaio 2016 numero 1608) che dev’esserci corrispondenza tra il trasferimento e le finalità tipiche dell’impresa. Tale accertamento deve riguardare tanto la sede di destinazione del lavoratore quanto quella di provenienza.

Resta comunque a carico dell’azienda l’onere di provare la sussistenza delle ragioni alla base del trasferimento.

Come segnalare il trasferimento al lavoratore?

L’azienda può comunicare il trasferimento al lavoratore anche oralmente, salvo diversa disposizione del contratto collettivo.

Al datore di lavoro (secondo l’orientamento maggioritario della Cassazione) non è imposto l’obbligo di indicare, nella lettera di trasferimento, le ragioni che giustificano la sua decisione. Tuttavia, lo stesso è tenuto a provare l’esistenza e la fondatezza delle motivazioni dietro esplicita richiesta del lavoratore.

Il lavoratore può opporsi al trasferimento?

Sul rifiuto del lavoratore di fronte alla decisione dell’azienda di trasferirlo, è opportuno distinguere tra:

  • trasferimento legittimo, il lavoratore non può opporsi e comunque, in caso di rifiuto non sostenuto da motivazioni valide, l’azienda può ricorrere al licenziamento per giustificato motivo soggettivo;
  • trasferimento illegittimo, il rifiuto del dipendente è valido e il licenziamento eventualmente irrogato dev’essere annullato.

L’opposizione del lavoratore può avvenire con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la propria volontà, entro 60 giorni dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento.

L’atto è tuttavia inefficace se, entro i successivi 180 giorni, il lavoratore non deposita ricorso presso la cancelleria del Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, ovvero non comunica alla controparte la propria richiesta di conciliazione o arbitrato.

In caso di rifiuto della conciliazione - arbitrato o di mancato raggiungimento dell’accordo, il ricorso al giudice dev’essere depositato (a pena di decadenza) entro 60 giorni dal rifiuto o mancato accordo.

Casi particolari

A fronte di determinate situazioni personali o di salute del lavoratore, la normativa limita il potere del datore di lavoro di disporre il trasferimento.

In particolare, la Legge del 5 febbraio 1992 numero 104 dispone (articolo 33 comma 6) in favore dei lavoratori maggiorenni con handicap in situazione di gravità:

  • il diritto di scegliere, se possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio;
  • la necessità del loro consenso per essere trasferiti ad altra sede (fanno eccezione i casi di incompatibilità della permanenza del dipendente nella sede di lavoro, ad esempio quando la stessa genera tensioni o contrasti, con rilevanti ripercussioni sul regolare svolgimento dell’attività lavorativa).

Il precedente comma 5 sempre dell’articolo 33, riconosce diritti analoghi al familiare di persona con handicap grave al quale lo stesso garantisce assistenza e, per questo motivo, ha diritto di assentarsi dal lavoro, godendo di permessi retribuiti dall’Inps.

Nello specifico il comma 5 dispone:

  • il diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere;
  • la necessità del consenso del lavoratore ad essere trasferito (tranne i casi di incompatibilità, già descritti poc’anzi).

Quando si realizza un trasferimento collettivo?

Si parla di trasferimento collettivo quando ad essere interessata è l’impresa nel suo complesso o una parte di essa (ad esempio un reparto o filiale).

Nell’ambito del trasferimento collettivo sono in gioco interessi più generali rispetto a quelli riguardanti lo spostamento individuale, tali da determinare un confronto con le organizzazioni sindacali.

Nel corso dell’esame in sede sindacale (obbligatorio se previsto dal contratto collettivo applicato) si analizzano i motivi della scelta aziendale e si stabiliscono le modalità per attuare il trasferimento.

Sono previsti compensi per il lavoratore trasferito?

I contratti collettivi possono prevedere l’erogazione di specifiche indennità in favore del dipendente interessato oltre al rimborso delle spese sostenute per lo spostamento in una diversa località.

Dal punto di vista contributivo e fiscale le indennità di trasferimento, di prima sistemazione e quelle equivalenti, sono escluse dalla retribuzione imponibile in misura pari al 50% del loro ammontare, fino ad un massimo annuo di:

  • 1.549,37 euro per i trasferimenti sul territorio nazionale;
  • 4.648,11 euro per i trasferimenti da o per l’estero;
  • 6.197,48 se nello stesso anno il lavoratore subisce un trasferimento in Italia ed uno all’estero.

L’esenzione è comunque riconosciuta solo per il primo anno dalla data del trasferimento (periodo di 365 giorni decorrente dalla data del trasferimento), anche se le indennità sono corrisposte per più annualità.

Sono in ogni caso esclusi dalla retribuzione imponibile:

  • i rimborsi delle spese di viaggio (anche per i familiari a carico);
  • i rimborsi delle spese di trasloco;
  • il rimborso degli oneri eventualmente sostenuti dal dipendente per il recesso dal contratto di locazione, a seguito del trasferimento.

Il trasferimento come sanzione disciplinare

A fronte di una mancanza o di un’insubordinazione del dipendente, l’azienda, nel rispetto della procedura di contestazione disciplinare imposta dallo Statuto dei lavoratori (articolo 7, Legge 20 maggio 1970 numero 300), può ricorrere, tra gli altri, al trasferimento.

In tal caso, la decisione del datore di lavoro non risponde a logiche organizzative o gestionali (rinvenibili nel trasferimento «classico»), ma all’interesse di non disperdere la professionalità del lavoratore ricorrendo ad un’ulteriore graduazione della sanzione disciplinare, prima di ricorrere al licenziamento.

È infatti utile ricordare che i provvedimenti a disposizione dell’azienda si concretizzano, in base alla gravità del fatto commesso, in:

  • richiamo verbale;
  • ammonizione scritta;
  • multa, fino ad un massimo di 4 ore di retribuzione base;
  • sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di 10 giorni;
  • trasferimento;
  • licenziamento per giusta causa (senza preavviso) o per giustificato motivo soggettivo (con preavviso).

Da ultimo è opportuno precisare che la Cassazione (sentenze del 28 settembre 1995 numero 10252 e del 6 luglio 2011 numero 14875) ha stabilito che il trasferimento disciplinare è legittimo se previsto dalla contrattazione collettiva.

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