La manovra di rilancio vista dal Canton Ticino: un circolo vizioso che rischia di affossare il Paese. Secondo l’economista Amalia Mirante, l’Europa tutta deve ritrovare il filo.
È una Svizzera che guarda con speranza sottile all’Italia; al suo patrimonio di «capacità e competenze», all’eccellenza della sua storia industriale, ma anche alle aspettative da troppo tempo e puntualmente disattese.
Un vero peccato e in un certo senso anche un danno, per la Confederazione elvetica che, nel suo rapporto di amore-odio con chi la circonda ammette la dipendenza da un’Europa oggi schiacciata fra Stati Uniti e Oriente, che ha un compito fondamentale: ricominciare a investire su sé stessa e divenire trainante per un’economia meno dipendente dagli altri. La decisione di alzare i tassi di interesse, che la Bce ha preso una settimana esatta prima della Banca nazionale svizzera, non può essere risolutiva senza altri accompagnamenti.
Amalia Mirante, docente e ricercatrice di Economia politica, etica economica e storia del pensiero economico presso la Scuola universitaria della Svizzera italiana, sostiene che insistere su questa strada potrebbe essere controproducente. Il rischio è alto: frenare una crescita che serve, specie adesso.
Mirante, prima la Bce, sette giorni dopo la Bns. Coincidenza?
«La politica monetaria nazionale svizzera da sempre è fortemente legata, in parte anche condizionata, dalla politica monetaria europea».
Eppure la maggioranza è rimasta spiazzata. Perché?
«La Bns ha un po’ anticipato i tempi e ha preso una decisione più forte della Bce, aumentando il tasso di interesse di 0,5 punti percentuali. Una manovra decisa, probabilmente spinta da un’accelerazione dell’inflazione negli ultimi mesi anche in Svizzera, che può aiutare a rompere la prevedibilità e scardinare il comportamento degli agenti economici».
Qual è il comportamento da modificare?
«Quello dei consumatori, affinché rallentino la loro domanda, e quello delle aziende, perché riducano i loro investimenti. Tutto ciò premesso che l’inflazione è nell’aria da parecchio tempo e non è stata portata dalla guerra. È qualcosa di più strutturale e dunque difficile da curare nell’immediato, causata dal Covid e dai lockdown, dai ritardi, dai rallentamenti nell’estrazione delle materie prime. I segnali si vedevano già ad aprile dell’anno scorso. A settembre gli Stati Uniti correvano con l’indice dei prezzi al consumo. E c’è anche un’altra questione, a mio parere sottovalutata: l’aumento del benessere di alcuni Paesi».
Affossati da Paesi che stanno “troppo” bene?
«Pensiamo alla Cina: il benessere aumenta e le persone vogliono case, auto, beni di consumo che qui già abbiamo. Parliamo di 1,4 miliardi di persone, che hanno dunque un impatto irruento sulla domanda. Da un lato l’offerta che rallenta, dall’altro la domanda che cresce: ecco che si crea lo scompenso. E non illudiamoci di sistemarlo subito, “solo” aumentando il costo del denaro».
Era così imprevedibile o siamo arrivati un po’ fuori tempo?
«Se c’è qualcosa che è stata sottovalutata è la durata di questa inflazione, che la Bce definiva come transitoria, dipendente da un po’ di ritardo nelle catene di approvvigionamento, dall’incremento dell’uso delle fonti energetiche. Non ci si è resi conto che i lockdown, la crescita del benessere e dei consumi, per esempio in Cina, ma anche il grande movimento per la transizione ecologica, impossibile da compiere in pochi anni, hanno generato un cambiamento più grande di quel che si stimava. O, forse, in quel momento la Bce non se l’è sentita di frenare una crescita che doveva esserci. Non dimentichiamo questo aspetto: l’aumento dei tassi di interesse, fatto qualche tempo fa, avrebbe rallentato una crescita estremamente necessaria».
Adesso non lo è altrettanto?
«Io credo che ci troveremo ad affrontare mesi difficili e bisognerà occuparsi di chi pagherà maggiormente le conseguenze. Penso ai redditi fissi, ai pensionati, che soffriranno di più perché si tratta di aumenti generalizzati su tutti i beni di prima necessità».
Basterà?
«Oltre all’aumento dei tassi, la Bce ha detto stop agli acquisti dei titoli. Era necessario: la politica economica anticiclica è buona e giusta se aiuta l’economia quando c’è necessità, ma poi si rischia una sorta di doping. Quando le cose vanno bene, bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro. La Bce l’ha annunciato, con la conseguenza che i Paesi indebitati vedono aumentare i tassi di interesse sulle obbligazioni di Stato. È il caso dell’Italia. Ma è sbagliato pensare che sia colpa della Bce».
Di chi è la colpa?
«Il problema è che l’Italia ha un debito pubblico enorme. Non vorrei che la medicina cui si sta pensando, il famoso scudo antispread, sia di nuovo una sorta di doping per l’economia italiana. Non si può continuare in eterno ad alimentare con la spesa pubblica un’economia che non opera i cambiamenti strutturali di cui ha bisogno».
I tassi di interesse andranno alzati ancora?
«Se la corsa e l’intensità degli aumenti dei prezzi non dovessero ridursi, è probabile. Ma è da valutare con attenzione se e quando. Se l’effetto generato è quello di un freno importante ai consumi e agli investimenti, probabilmente bisognerà scegliere una politica meno aggressiva».
Ormai siamo alla parità euro-franco: qual è la possibilità che la Svizzera ritocchi il cambio, se il franco dovesse rafforzarsi ancora?
«La Banca nazionale ha già annunciato che se sarà il caso interverrà. Io, sul punto, sono un po’ scettica e dubbiosa: la parte di riserve ufficiali detenuta in titoli stranieri è già molto ampia e non credo che la Svizzera abbia così ampio margine. Molto dipenderà anche da come si comportano le altre economie: non siamo un’isola felice e disancorata da quello che succede nel resto d’Europa».
In questo scenario, i prezzi dell’energia che ruolo hanno?
«Anzitutto, ciò che possiamo sperare è che la guerra finisca. Senza dimenticare che gli scompensi nel sistema economico vanno oltre. Servirà del tempo. In questi ultimi anni, l’Occidente ha ridotto fortemente gli investimenti nella raffinazione del petrolio per andare verso la transizione ecologica. Ciò implica che ora non siamo in grado di produrre di più, ma se dovessimo riuscire a fare passi avanti dal punto di vista tecnologico sulle risorse alternative, i pezzi della scacchiera si rimescolerebbero in fretta e buona parte dell’aumento dei costi che deriva dalle difficoltà nel reperire gas e petrolio verrebbe annientata».
La strada è ancora lunga, si dice.
«Sì e no: la storia insegna che le innovazioni arrivano e sono dirompenti. Speriamo piuttosto di non ricadere negli stessi errori del passato. La produzione delle energie rinnovabili al momento rimane confinata in Cina. Come già per il petrolio, dipenderemmo da un’altra parte del mondo».
C’è una soluzione?
«L’Unione Europea potrebbe prendere coscienza di ciò e investire, non solo nella ricerca ma nella produzione. L’Europa fatica a capire che bisogna sporcarsi le mani, fare invece di delegare».
Dunque è vero: la globalizzazione è al capolinea? Si torna a fare in casa?
«In parte sì. La specializzazione delle Nazioni è a vantaggio di tutti, ma quando si spinge troppo oltre diventa un limite. Durante il primo lockdown, abbiamo scoperto che non sapevamo fare neanche una cosa semplice come le mascherine. Non dico che ogni nazione debba avere sua fabbrica batterie elettriche, ma che bisogna costruire un complesso industriale in grado “di fare”. Se non ne ha la forza l’Unione Europea, chi dovrebbe averla? Non possiamo rimanere a fare gli spettatori in mezzo a due mondi, Usa e Asia, ciascuno a fare i propri interessi»,
La Svizzera fa il tifo per l’Ue?
«La Svizzera è molto brava a mantenere buone relazioni con tutti i giocatori sulla scacchiera. Ma per vicinanza e cultura è all’Europa che guarda. Da sola non ha forza sufficiente per incidere, ma unita all’Europa può dare un contributo importante a ricerca e sviluppo».
Eppure la situazione economica attuale dell’Europa non rischia di farle male?
«Nei prossimi mesi è probabile un rallentamento delle economie europee. Ciò potrà avere un impatto economico negativo sulla situazione in Svizzera, che all’Europa è molto legata. La locomotiva tedesca ha cominciato tempo fa a dare segnali importanti di rallentamento economico. La situazione italiana purtroppo è al bivio: ha tutto il potenziale, una storia industriale d’eccellenza, ha capacità e competenze, ma sembra sempre mancare il traguardo».
Un’Italia che stenta a ritrovare se stessa: perché?
«In questo momento ci sono in ballo miliardi di investimenti che vanno in parte a sanare anni di assenza da parte dello Stato e dei compiti che avrebbe dovuto svolgere. La riqualificazione degli edifici scolastici o degli ospedali, per esempio, non è un valore aggiunto: è un ammissione di ritardo. Si ricade poi in una logica avvelenata. Bonus, superbonus, aiuti da parte dello Stato sono spesa pubblica, che va ad aumentare il debito pubblico, che rimane un enorme problema. Basta uno scossone e tutto si ferma».
L’Italia quanto conta per la Svizzera?
«Una rinascita della produzione industriale italiana sarebbe importante per il Paese, ma anche per l’economia svizzera e per l’Europa. In questo momento in Europa manca una forza trainante. La Germania sembra non avere più un chiaro indirizzo: sarebbe il momento buono per altri di subentrare. Ma l’Italia non riesce, la Francia manca in egual modo di innovazione. Dall’altra parte, Cina e India stanno lavorando molto bene».
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