Un marchio famoso è stato distrutto dai dazi. «È sconvolgente»

Luna Luciano

06/04/2025

Nike perde 13 miliardi di dollari in borsa dopo i dazi di Trump: il colosso dell’abbigliamento sportivo affronta una crisi senza precedenti. Ecco cosa sta succedendo.

Un marchio famoso è stato distrutto dai dazi. «È sconvolgente»

La guerra dei dazi di Donald Trump ha finito per colpire uno dei più grandi e importanti marchi statunitensi della storia.

L’azienda Nike, che ha prodotto calzature per i più grandi campioni sportivi, ha perso ben 13 miliardi di dollari di valore di mercato nel giro di pochi giorni. La causa? Un’escalation di tariffe imposte su diversi paesi asiatici — in particolare Vietnam, Cina e Indonesia — che rappresentano il cuore della produzione globale del marchio.

La risposta degli investitori non si è fatta attendere: il titolo è crollato del -14%, spinto da timori su un aumento dei costi, un calo delle vendite e una crisi dei consumi in arrivo.

Il Vietnam, che da solo rappresenta il principale fornitore di scarpe Nike, è stato colpito da una tariffa del 46%. Ancora più severe le misure per la Cina, con un dazio del 54%, e per l’Indonesia, colpita con un’imposta del 32%.

L’amministrazione Trump ha definito questa mossa parte di un piano strategico per riequilibrare i rapporti commerciali con l’estero, ma l’impatto sul settore calzaturiero americano è stato definito da diversi analisti come “potenzialmente disastroso”. E Nike, gigante globale con sede in Oregon, è la prima vittima visibile di questa nuova fase protezionista. Ecco cosa sta accadendo: di seguito tutto quello che serve sapere a riguardo.

Nike e la dipendenza dalla produzione estera: un boomerang doloroso

Il modello di produzione di Nike, come di molti altri brand del settore moda e sportivo, si basa da decenni su una rete globale di fornitori e stabilimenti situati prevalentemente in Asia. Secondo i dati del gruppo commerciale Footwear Distributors and Retailers of America, il 95% delle scarpe Nike è prodotto in Vietnam, Cina e Indonesia. La scelta è legata principalmente a motivi di costo: la manodopera meno cara e una struttura industriale ormai collaudata hanno reso questi Paesi centrali per l’intera catena di fornitura. Ma con l’introduzione dei dazi da parte di Trump, questo modello di business si è improvvisamente trasformato in un punto di vulnerabilità.

Le tariffe imposte comportano un aumento diretto dei costi di importazione per le aziende statunitensi, costringendo Nike a scegliere tra due opzioni: assorbire le perdite o aumentare i prezzi di vendita. Entrambe le soluzioni sono rischiose. David Swartz, analista di Morningstar, ha sottolineato che se i prezzi di modelli iconici — come le scarpe LeBron — dovessero passare da 180 a 240 dollari, la domanda inevitabilmente crollerebbe. Il principio economico è semplice: al crescere del prezzo, cala la domanda. E in un contesto in cui i consumatori americani stanno già affrontando una recessione e l’inflazione è in aumento, la soglia di tolleranza del mercato è più bassa che mai.

L’idea che Nike possa rilocalizzare la produzione negli Stati Uniti è considerata irrealistica. Le infrastrutture non sono pronte, i costi sarebbero troppo elevati e i tempi di adattamento incompatibili con il ritmo del mercato. In questo scenario, sia i fornitori che Nike stessa dovranno cercare compromessi temporanei per resistere all’urto. Alcune fabbriche potrebbero accettare una riduzione dei compensi pur di mantenere contratti pluriennali, ma il margine di manovra resta limitato. Intanto, le conseguenze già si vedono nei numeri: nel terzo trimestre, Nike ha registrato una flessione del 9% nei ricavi, con un crollo del 15% nelle vendite online.

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Nike, sfide e rischi per il futuro del marchio

Oltre al danno immediato dei dazi, Nike si trova a dover affrontare un contesto globale sempre più competitivo e incerto. La sua storica posizione dominante nel mercato dell’abbigliamento sportivo — condivisa per anni con Adidas — sta lentamente erodendo. Se nel 2018 i due marchi rappresentavano insieme il 63% del mercato globale, nel 2023 la loro quota è scesa al -51%, con Nike al 35% e Adidas al 16%. A colmare il vuoto ci sono nuovi player come il marchio svizzero On, specializzato in scarpe da running, e marchi già affermati come Hoka, New Balance, Puma e Asics, che stanno guadagnando terreno grazie a strategie di marketing più dinamiche e prodotti mirati.

Nike ha puntato molto sulla vendita diretta tramite i propri negozi fisici e piattaforme online, ma i risultati recenti indicano che questo canale sta subendo un forte rallentamento. Il business diretto al consumatore ha visto un calo del 12% nel trimestre, segnale che anche il consumatore fedele sta diventando più attento al prezzo e meno incline a spendere per il brand. In un panorama economico segnato da incertezza geopolitica, volatilità dei tassi di cambio e normative fiscali imprevedibili, la sfida di mantenere la fiducia dei consumatori diventa cruciale.

A rendere ancora più fragile la posizione di Nike è la dipendenza dai mercati esteri: quasi il 60% delle sue vendite totali avviene al di fuori degli Stati Uniti. In teoria, questo potrebbe rappresentare un’ancora di salvezza in un momento di crisi interna. Ma anche i mercati esteri sono soggetti a instabilità e concorrenza crescente. Il futuro di Nike dipenderà dalla sua capacità di adattarsi rapidamente: ottimizzare la catena di fornitura, contenere i costi, diversificare i mercati di produzione e rinnovare l’offerta per riconquistare l’attenzione di una clientela sempre più esigente.

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