4 conseguenze economiche della guerra tra Iran e Israele

Violetta Silvestri

02/10/2024

Iran-Israele sono in guerra, con il rischio di una escalation su tutto il Medio Oriente che adesso è reale. Quali conseguenze per l’economia globale? 4 temi cruciali in focus.

4 conseguenze economiche della guerra tra Iran e Israele

L’escalation in Medio Oriente è esplosa e una guerra tra Iran e Israele è ormai realtà, con potenziali conseguenze economiche per il mondo.

Teheran ha lanciato centinaia di missili sul territorio israeliano martedì 1° ottobre, descrivendo l’operazione come difensiva e mirata esclusivamente alle strutture militari.

L’Iran ha affermato che l’attacco è stato una risposta alle uccisioni di leader militanti da parte di Israele e all’aggressione contro Hezbollah in Libano e a Gaza.

“La nostra azione è conclusa a meno che il regime israeliano non decida di invitare ulteriori ritorsioni. In quello scenario, la nostra risposta sarà più forte e più potente, ha detto il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi in un post su X mercoledì mattina.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha giurato di reagire e gli Stati Uniti hanno dichiarato che collaboreranno con Israele se dovrà essere difeso dagli attacchi iraniani. Le Forze di difesa israeliane, intante, hanno dichiarato di aver lanciato nuovi attacchi contro obiettivi di Hezbollah in Libano.

Gli attacchi sono stati l’ultima escalation di un conflitto più ampio iniziato quando Hamas, sostenuto anche dall’Iran, ha attaccato lo Stato ebraico il 7 ottobre. Israele ha respinto le richieste di cessate il fuoco provenienti dagli Stati Uniti e d altri attori internazionali e il mese scorso ha dichiarato che avrebbe spostato l’attenzione delle operazioni militari dalla campagna nella Striscia di Gaza al Libano.

Ora, con il coinvolgimento anche dell’Iran, gli scenari sono davvero tutti possibili. La guerra in Medio Oriente può espandersi. Quale sarà l’impatto economico e finanziario? La risposta in 4 punti.

1. Balzo del prezzo del petrolio

La prima reazione di una guerra allargata in Medio Oriente, con l’intervento diretto dell’Iran, è stata quella di un’impennata del prezzo del petrolio.

L’oro nero è osservato speciale e subito dopo la notizia degli attacchi missilistici iraniani il greggio Brent è salito di oltre il 5%, prima di ridurre i guadagni. Il petrolio guadagna oltre l’1% mentre si scrive, con i futures sul Brent oltre i 74 dollari al barile e il WTI sopra i 70 dollari al barile.

Tuttavia, secondo analisti e trader, il mercato non ha ancora pienamente scontato il rischio di un ulteriore rialzo dei prezzi in caso di attacchi agli impianti petroliferi iraniani o se Teheran bloccasse lo Stretto di Hormuz.

Occorre infatti ricordare che l’Iran, anche se non è più l’attore principale nella fornitura di petrolio che era in passato, soprattutto per i Paesi occidentali, gioca ancora un suo ruolo nel settore. E potrebbe rompere gli equilibri di domanda/offerta.

Teheran è un produttore e membro dell’OPEC, ma esporta la maggior parte del suo greggio in Cina a causa delle sanzioni internazionali. Tuttavia, una riduzione delle esportazioni di petrolio iraniano avrebbe un impatto “massiccio” sul mercato globale, poiché Pechino sarebbe costretto a competere con altri Paesi per le forniture. E i prezzi aumenterebbero con minore materia prima, ma stessa domanda.

L’Iran esporta fino a 1,5 milioni di barili al giorno di greggio, equivalenti all’1,5% della fornitura globale di petrolio. Il Paese ha prodotto un totale di 3,25 milioni di barili al giorno di greggio a marzo 2024, secondo i dati IEA.

Episodi drammatici possono far schizzare il prezzo del petrolio anche a 300 dollari al barile in un attimo, aveva ipotizzato il professore esperto di energia Nicolazzi su Ispi (in occasione degli attacchi iraniani con droni su Israele ad aprile).

L’attuale situazione è molto simile. Anche se, aveva ricordato il professore, non sarebbe così conveniente per l’Iran perdere vendite di petrolio in Cina, diminuendo quindi l’export in segno di ritorsione contro gli Usa.

2. Rotte commerciali nel caos

Una guerra tra Iran e Israele, con il coinvolgimento potenziale anche di Iraq e Libano, avrebbe ripercussioni commerciali su rotte cruciali, quelle del Golfo Persico.

Innanzitutto, potrebbe crescere la tensione sullo Stretto di Hormuz, una stretta via d’acqua alla foce del Golfo Persico. Questa è una delle principali rotte di navigazione che gestisce quasi il 30% del commercio mondiale di petrolio, attentamente monitorata per segnali di interruzione.

Un’escalation del conflitto tra Iran e Israele ha sollevato nuove preoccupazioni. L’Iran ha ripetutamente preso di mira le navi mercantili che attraversano il punto di strozzatura nel corso degli anni e ha minacciato di bloccare il transito in passato. Il 13 aprile, prima di lanciare un massiccio assalto missilistico e con droni contro Israele, l’Iran aveva per esempio affermato di aver sequestrato una nave portacontainer legata a Israele vicino allo stretto.

“Interruzioni o blocchi del traffico nello Stretto di Hormuz cambierebbero le carte in tavola”. Secondo un’osservazione di qualche mese fa di Richard Bronze, co-fondatore e analista della società di dati Energy Aspects, “questa è la via principale o unica per gli esportatori di petrolio mediorientali, inclusi i membri dell’OPEC Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti”. Le conseguenze ci sarebbero.

Le conseguenze ci sarebbero. Queste potrebbe essere mitigate dagli esportatori che utilizzano rotte più lunghe, ma il danno ai prezzi del petrolio potrebbe essere significativo e duraturo. Non ci sono molte rotte alternative dai principali siti di produzione ai Paesi occidentali.

Non solo, il sostegno iraniano ai militanti Houthi in Yemen, che ha portato ad attacchi alle navi mercantili alla fine dell’anno scorso, ha ridotto il traffico marittimo nel Canale di Suez di circa il 50%, secondo il Fondo Monetario Internazionale. Uno scenario di guerra potrebbe alimentare questo strumento di ritorsione. Strozzature alle vie commerciali si traducono sempre in prezzi più alti di merci e materie prime.

Occorre considerare, infatti, anche l’eventuale innalzamento dei costi di nolo, assicurativi e per affrontare viaggi più lunghi da parte dei portacontainer che devono scegliere nuove rotte.

3. Inflazione in rialzo

Con un effetto a catena, prezzi di beni e materie prime in rialzo vanno a incidere sull’inflazione. Proprio quando le banche centrali hanno iniziato a ridurre gli alti tassi di interesse e dare ossigeno alle imprese e alle famiglie, lo scenario potrebbe cambiare.

Il contesto non è dei migliori se si considera che le Borse mondiali sono crollate ad agosto sui timori di una recessione Usa. Il primo taglio dei tassi Fed di 50 punti base, inoltre, ha significato per molti che l’economia statunitense aveva bisogno di uno stimolo forte per evitare un potenziale declino.

Un conflitto, con il coinvolgimento degli Usa a sostegno di Israele, aumenta l’incertezza sulla ripresa economica mondiale e sul percorso di politica monetaria. Una ipotetica impennata dei prezzi bloccherebbe la politica accomodante delle banche centrali? L’interrogativo resta, con la conseguenza di un’economia indebolita da prezzi alti e prestiti onerosi.

4. Terremoto nei mercati

Una guerra aperta tra Iran e Israele, in un contesto geopolitico cruciale quale il Medio Oriente, renderebbe i mercati più incerti e fragili. Alcuni segnali si sono già palesati.

La maggior parte dei mercati azionari asiatici è crollata mercoledì 2 ottobre, in concomitanza con le vendite di Wall Street dopo che l’ attacco missilistico balistico dell’Iran su Israele ha suscitato timori di un più ampio conflitto regionale.

Oro, dollaro Usa, franco svizzero, yen, obbligazioni sono solitamente asset che beneficiano di guadagni in quanto assumono la funzione di “rifugio” in periodi drammatici come quelli dominati da conflitti. Gli investitori si sono infatti riversati su questi asset, con l’oro non lontano dal massimo storico. Il dollaro è stato scambiato vicino al suo massimo in tre settimane rispetto all’euro.

Un crollo delle azioni sarebbe un segnale negativo per l’espansione economica e un generale freno agli investimenti poiché dominerebbe la sfiducia.

“Nella catena di potenziali shock di volatilità del mercato, la geopolitica solitamente prevale sull’economia, sugli utili aziendali o sulla risposta della banca centrale, in gran parte perché la maggior parte degli operatori di mercato non è in grado di valutare il rischio legato a questi eventi”, ha spiegato Chris Weston, responsabile della ricerca presso Pepperstone.

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