Durante il congresso Euro, Mercati e Democrazia 2021, il duo Borghi e Bagnai ammette la spaccatura del partito e prova a ristabilire i punti fondamentali su cui ricostruire la loro offerta politica.
Esistono due Leghe. Si era capito da tempo, ma all’interno del partito di Salvini hanno sempre provato a negarlo. Da quando la Lega è entrata nel Governo Draghi, i malumori interni si sono fatti più forti. Il duo Borghi e Bagnai (ex responsabile economico e Deputato il primo, nuovo responsabile economico e Senatore il secondo), durante la decima edizione del congresso Euro, Mercati e Democrazia di Montesilvano - per gli amici Goofy10 - ha lanciato un messaggio di ricostruzione, di ritorno alla vecchia linea, facendo cadere il velo di integrità e pace interna al partito, affermando la presenza di una doppia Lega.
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Giorgetti e gli amministratori vedono nella via moderata e draghiana l’unico modo per non perdere voti e rendersi credibili, dunque l’unico modo per ottenere il governo; o, da un’altra prospettiva, vedono nel governare l’unico modo per non perdere voti. Radicalmente opposta la visione che emerge dal congresso di Montesilvano, dove Bagnai afferma che paghi di più dire qualcosa di radicale in modo moderato piuttosto che qualcosa di moderato in maniera radicale. Moderare i termini sì, dunque, ma non le posizioni.
L’altra Lega
È normale che esistano più Leghe secondo Borghi e Bagnai, perché dentro un partito non si può essere tutti d’accordo, si discute - e su questo non ci piove. Il problema, tuttavia, è che il Governo Draghi rappresenta, almeno in parte, quanto di più lontano dai due consiglieri economici di Salvini. Il congresso - e Bagnai - è famoso per aver rotto il tabù della moneta unica, raccontando le luci e le ombre dell’Eurozona e dei suoi Stati membri, aprendo alla possibilità di uno smantellamento, in vista di un ritorno a un sistema più flessibile e sostenibile.
Draghi, dal canto suo, si è insediato affermando l’irreversibilità dell’Euro - una posizione non proprio in linea con quella del responsabile economico della Lega. La fiducia al governo però fu votata da tutti, indistintamente, adeguandosi a una linea che fin da subito ha visto come sponsor il responsabile esteri, nonché storico militante e dirigente del partito, Giancarlo Giorgetti.
Il varesino, nel corso degli ultimi due anni, si è più volte presentato in tv o su qualche giornale smentendo la versione secondo cui la Lega voglia uscire dall’Euro, lasciandosi andare anche a una prova di forza del tipo «sono io il responsabile esteri, dunque decido io la linea». Questo atteggiamento cozza con il racconto della Lega come partito verticistico, in cui Salvini, solo al comando, detta legge. A quanto pare le influenze attorno al Capitano hanno un peso, ma soprattutto sono varie e non sono tutte sovrapponibili.
Se infatti Giorgetti ha sempre speso buone parole per Draghi, soprattutto dal 2019, quando l’attuale premier terminò il mandato come governatore della Bce, non si può dire lo stesso dell’ala che fa capo ai due consiglieri economici B&B. Fatto sta, però, che a inizio 2021 la linea giorgiettiana ha vinto, sulla scia del «Draghi è un fuoriclasse», mantra che ha accompagnato l’adesione della Lega al Governissimo dell’ex governatore Bce.
Meglio un giorno da radicali, che cento da moderati
La sconfitta delle amministrative è una sconfitta della politica, prima ancora che del cosiddetto centrodestra, visto che in alcuni comuni non è andato a votare circa un italiano su due, in alcuni casi anche di più. Dai flussi emerge che in buona parte gli elettori 5 stelle sono rimasti a casa, facendo vincere in vari comuni il partito degli astenuti.
La spiegazione che viene data da Bagnai è che abbia pesato il voto di opinione e che la moderazione dei partiti dall’inizio dell’esperienza Draghi sia uno dei motivi più forti che ha spinto gli elettori a restare a casa. Emblematica una frase del responsabile economico della Lega, secondo cui dire cose radicali in maniera moderata paghi più di dire cose moderate in maniera radicale.
La sfida che si pongono al Goofy è quella di ritornare sulla strada della lotta, per riconquistare quelli che definiscono «gli abbandonati dalla sinistra».
Il deficit, le tasse e lo Stato
Il punto fondamentale che dovrebbe unire questa «nuova destra» dovrebbe essere la lotta per ridurre le tasse. Claudio Borghi ha evidenziato, nel corso dell’ultimo panel del congresso, come combinare chi chiede meno tasse e chi chiede più Stato. L’obiettivo della Lega è infatti da sempre far ripartire la crescita con uno sgravio fiscale, racchiuso nel concetto spesso fonte di dibattito della flat tax, una tassa al 15% per tutti.
Lo sgravio, per essere efficiente come richiedono dalle parti di Via Bellerio, non dovrebbe essere «sostitutivo», ossia frutto di innalzamenti di pressione fiscale da una parte per ridurla da un’altra, ma dovrebbe essere «aggiuntivo». «Il deficit», dice Borghi, «è l’apostrofo rosa tra meno tasse e più Stato».
Questo messaggio arriva in un momento storico in cui il timore per il deficit è passato di moda, vista la crisi economica per la pandemia che ha costretto anche i più ortodossi a fare un passo indietro. Tuttavia, nel medio-lungo termine, non sembra che il pensiero economico europeo abbia intenzione di farsi rivoluzionare. Il controllo del bilancio pubblico e il rigore nei conti sono dietro l’angolo.
Il ritorno di Monti?
Il clima culturale, economico, all’arrivo del premier Draghi ha dato fin da subito piccoli messaggi di cambiamento: l’apertura verso il debito - a patto che sia «buono», il famoso momento di dare piuttosto che prendere soldi dagli italiani, e tante altre considerazioni del premier, famoso per il suo discorso in cui disse «whatever it takes», che lasciano trasparire un’indole, per così dire, espansiva.
L’ultimo scontro che - almeno mediaticamente - ha vinto Draghi è quello sul terreno della riforma del catasto. Avversata fin dall’inizio dalla Lega, in quanto ritenuta foriera di nuove tasse, e difesa dal premier fino al «silenzioso» inserimento nel piano di riforma fiscale.
Draghi ha affermato che non ci saranno nuove tasse e che la riforma del catasto è un percorso di 5 anni, che si concluderà nel 2026 e che dalle parole del premier assume una connotazione puramente estetica, cosmetica: insomma, irrilevante ai fini del gettito fiscale.
Va però chiarito un punto: il Recovery Fund, lo strumento tramite il quale vengono concessi fondi all’Italia in contropartita a un piano di riforme descritto nel cosiddetto PNRR, è un malloppo di circa 200 miliardi che rappresentano, contabilmente, nuovo debito.
Anche la parte cosiddetta a «fondo perduto» è in realtà un insieme di fondi reperiti col meccanismo del bilancio europeo, ossia a saldo nullo: ogni paese contribuisce secondo il proprio Pil e riceve una certa somma indietro dal totale che viene raccolto. A prescindere dalla capacità o meno del piano di riforme di far ripartire la crescita (e dunque il gettito fiscale nel medio periodo), quei fondi vanno restituiti, ironia della sorte, a partire dal 2026.
Siccome la politica fiscale è tutt’ora competenza degli Stati membri (modo carino per dire che non esiste un’Europa fiscale - e non sembra sul punto di nascere, viste le posizioni dei cosiddetti paesi frugali) le tasse non saranno europee, ma nazionali. In sintesi, l’Italia dovrà tirare fuori 200 miliardi dal suo sistema fiscale.
Secondo le raccomandazioni della Commissione europea pre-pandemia (2019), l’Italia dovrebbe tornare sui suoi passi rispetto alla tassazione del patrimonio. L’eliminazione dell’IMU sulla prima casa, secondo la Commissione, fu un errore. L’obiettivo dovrebbe essere ridurre la tassazione sul lavoro, spostandola sul patrimonio, manovra che secondo la Commissione favorirebbe la ripartenza della crescita. Purtroppo l’esperienza non sembra dar loro ragione.
In ogni caso, se ci sarà una nuova manovra stile Monti e una nuova stagione di consolidamento fiscale, la battaglia del meno tasse sarà la prima vittima, con buona pace delle due leghe e della «nuova destra».
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