Cos’è l’articolo 48 del TUE e perché può cambiare totalmente l’UE

Felice Bianchini

7 Novembre 2021 - 07:01

Di fronte alla mole di dichiarazioni propositive nel senso di riformare l’UE, occorre ricordare quali siano le criticità e quali le regole per modificare i Trattati. Parliamo dell’articolo 48 del TUE.

Cos’è l’articolo 48 del TUE e perché può cambiare totalmente l’UE

L’UE affonda le sue radici su due trattati: il Trattato sull’Unione europea (TUE), in cui si espongono i principi dell’Unione, e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), in cui si approfondiscono le istituzioni, i meccanismi e le regole che la riguardano. È giusto, anzi fondamentale, per chi si dichiara favorevole a una modifica dell’assetto europeo, fare riferimento agli equilibri politici all’interno del vecchio continente. Per questo è utile un resoconto delle criticità messe in luce da vari osservatori e attori politici, nonché una guida all’articolo 48 TUE, in cui sono scritte le procedure per revisionare i Trattati - e dunque l’assetto istituzionale europeo.

Trattato sull’Unione europea
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea

I problemi dell’UE

Chi è critico verso l’UE denuncia dei problemi riguardanti solitamente tre «settori», tutti appartenenti alla parte terza del TFUE, la più voluminosa, composta da 172 articoli (dal 26 al 197):

  1. libertà e movimenti di capitali;
  2. indipendenza e obiettivi della BCE;
  3. politiche fiscali e squilibri commerciali.

Libertà e movimenti di capitali

Il primo tema che si incontra nella parte terza (al titolo IV, Capi 2-3-4 , articoli 49-66 TFUE) è quello della libertà di movimento e di stabilimento. Dietro un sano principio come quello di libertà di movimento, affermato per merci, persone e capitali negli accordi di Schengen, sono passati in silenzio diversi effetti collaterali, legati, oltre al semplice movimento, al cosiddetto diritto di stabilimento.

Riconoscendo a ogni impresa operante a livello UE di stabilirsi dove meglio crede, secondo convenienza, si è generata una competizione a livello di salari e tasse tra i paesi, racchiusa in termini politici nell’esaltazione del principio di attrattività verso i capitali. Un’impresa, che ha tra i suoi obiettivi la minimizzazione dei costi, ovviamente stabilirà la sua sede dove si pagheranno meno tasse e lavoratori.

Sono note e attuali le questioni di elusione fiscale (spostamento delle sedi fiscali in paradisi), di delocalizzazione produttiva (come, da ultimo, nel caso GKN, che ha fatto molto discutere) - e di riflesso le questioni di dumping fiscale e dumping salariale, che rappresentano una competizione al ribasso che alla lunga danneggia tutti i membri UE e in un certo senso tradisce il principio di crescita sostenibile affermato tra gli obiettivi fondamentali.

Indipendenza e obiettivi della BCE

Un altro nodo polemico è la Banca centrale. L’indipendenza della BCE viene spacciata per autonomia tecnica. In realtà, ogni Banca centrale ha un ruolo politico fondamentale, in quanto determina la domanda effettiva per mezzo del controllo della quantità di moneta in circolazione e dei tassi di interesse, il tutto grazie al controllo sul tasso di sconto - che influenza l’attività creditizia delle banche - e alle operazioni di acquisto di titoli - che influenzano, per esempio, il tasso di interesse dei titoli di Stato.

Un’altra prova a favore della non neutralità della BCE e della politica monetaria è infatti la capacità di controllare il differenziale dei tassi dei titoli di Stato, anche detto Spread (tant’è che bastò un «whatever it takes» per placare i cosiddetti mercati), potere che non sempre è stata utilizzato, talvolta in favore di un uso dello Spread come spauracchio politico.

Gli acquisti della BCE possono però avvenire solo sul mercato secondario, in un certo senso un mercato di «titoli usati», che sono già stati comprati da qualcun altro. Come prescrive l’articolo 123 TFUE, la BCE non può acquistare sul mercato primario, che nel caso dei titoli di Stato significa acquistare direttamente dai Ministeri del Tesoro che li emettono, finanziando la spesa pubblica europea.

In altri termini, la BCE non ha un ruolo di prestatore di ultima istanza, che le consentirebbe di rendere gli Stati membri totalmente immuni dalla speculazione finanziaria.

Viene poi criticato lo Statuto, nel quale come obiettivi si riscontrano la stabilità dei prezzi e il mantenimento dell’inflazione al di sotto del 2% - mentre non c’è, come invece per la Fed (la Banca centrale americana), un riferimento al tasso di occupazione, che resta sulla carta uno degli obiettivi dell’UE.

Politiche fiscali e squilibri commerciali

Ai primi due temi è legato a doppio nodo quello della politica fiscale (decisione su tassazione e spesa pubblica) degli Stati membri, de iure autonoma, ma de facto vincolata a vecchi parametri che a oggi vengono rinnegati dagli stessi che li hanno scritti, nonché sorvegliata e indirizzata dalla Commissione europea.

Come detto, la politica fiscale non viene tutelata e sostenuta dalla BCE ed è sempre meno incisiva rispetto ai grandi capitali, che eludono il fisco e spostano le produzioni dove il costo del lavoro è più basso, alimentando una gara al ribasso tra paesi in teoria «fratelli» - quantomeno cugini.

Un’altra questione riguarda la funzione anticiclica della politica fiscale, alla quale sono stati preferiti degli interventi prociclici, ciò che generalmente viene chiamato austerità, ossia manovre di contenimento della domanda interna, aumento della pressione fiscale e riduzione della spesa pubblica.

Gli obiettivi da raggiungere, scritti anche nei trattati, per l’UE sono:

  • prezzi stabili;
  • finanze pubbliche e condizioni monetarie sane;
  • bilancia dei pagamenti sostenibile.

Nessuno dei tre, e in particolare gli ultimi due, è stato concretamente raggiunto: con l’inizio dell’integrazione, le bilance dei pagamenti hanno iniziato a divergere sempre più (complice la combinazione di cambio fisso e divario di produttività e di tasso di inflazione interno tra i vari paesi), delineando un centro esportatore nel Nord Europa e una periferia importatrice nel Sud Europa.

Per finanziare i deficit commerciali del Sud, come già successo nella storia tra altri centri e le rispettive periferie, il Nord lo ha riempito di capitali (per esempio con finanziamenti e credito al consumo ai cittadini). All’arrivo di uno shock esogeno (la crisi finanziaria 2008), i nodi sono venuti al pettine, richiedendo un intervento pubblico per assorbire il gigantesco e sofferente debito privato.

Lo squilibrio commerciale, rimasto dov’era, è stato affrontato con una svalutazione interna dei paesi del Sud: contenimento e distruzione della domanda, che fa calare i prezzi interni e per l’effetto reddito riduce le importazioni - tradotto: una parte del reddito viene risparmiata, un’altra viene consumata; parte dei consumi entra nel conto delle importazioni; dunque se cala il reddito, si riduce tendenzialmente anche la spesa per importazioni.

La svalutazione interna è l’unico modo per un Paese in deficit, in mancanza di una svalutazione del cambio (o rivalutazione del partner in surplus), per riacquistare competitività. Si sarebbe potuta evitare se il Nord avesse portato avanti una rivalutazione interna, un aumento di salari e prezzi interni, che avrebbe incentivato le importazioni dal Sud. Tuttavia, il Nord ha preferito tirare la cinghia, portando di riflesso anche gli altri a farlo.

Come si cambia l’UE con l’articolo 48 del TUE

Il discorso sulle criticità e le possibili modifiche sarebbe, volendo, anche più lungo e dettagliato. Almeno in Italia, tutti si riempiono la bocca di cambiamento dell’Europa - sono rimasti pochi quelli che lascerebbero tutto com’è. Lo stesso Presidente del Consiglio Draghi ritiene che ritornare alle vecchie regole tali e quali non è credibile. Ma la domanda è: come si fa a «cambiare l’Europa da dentro»?

La risposta è scritta nell’articolo 48 del Trattato sull’Unione europea (TUE), il trattato dove sono scritti i principi alla base dell’Unione, ma anche le procedure di revisione e di recesso (quest’ultimo regolato dall’articolo 50, utilizzato dal Regno Unito per realizzare la Brexit).

Anche se in parte farraginoso, il testo dell’articolo è chiaro. Vengono definite due forme di revisione:

  1. revisione ordinaria
  2. revisione semplificata

Entrambe possono partire dall’iniziativa di tre attori, nazionali o internazionali:

  1. Governo di uno Stato membro
  2. Parlamento europeo
  3. Commissione europea

Ecco quali sono le differenze.

Articolo 48 TUE: Procedura di revisione ordinaria

Un Governo di uno Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione sottopone un progetto di modifica - anche che vada nel senso di accrescere le competenze UE - al Consiglio dell’Unione europea (da non confondere col Consiglio europeo: è un consesso in cui si incontrano, per dicastero, i ministri dei vari Stati membri - ad esempio, l’Ecofin è quella parte di Consiglio dell’Unione europea riguardante i Ministri dell’economia). Quest’ultimo invia il progetto al Consiglio europeo e ai Parlamenti nazionali.

Il Consiglio europeo decide a maggioranza semplice se discutere le modifiche sul tavolo. In caso di risposta positiva, viene convocata una Convenzione, di cui faranno parte dei rappresentanti dei Parlamenti nazionali, dei Capi di Stato o di Governo degli Stati membri, del Parlamento europeo e della Commissione. Se le modifiche riguardano questioni monetarie, viene sentita anche la BCE. Il Consiglio europeo, sempre a maggioranza semplice, può decidere, se le modifiche non sono rilevanti, di non convocare la Convenzione.

Se viene convocata, la Convenzione esamina le modifiche e redige un documento che viene chiamato raccomandazione che dev’essere rivolto a una Conferenza intergovernativa (CIG). Quest’ultima ha il compito di decidere, in definitiva, quali modifiche vadano apportate.

Le modifiche accettate dalla CIG entrano in vigore dopo che tutti gli Stati membri le hanno ratificate. Se dopo due anni dalla firma di un trattato di modifica, 4/5 degli Stati membri hanno completato il processo di ratifica, mentre uno o più non l’ha ancora fatto, la questione viene deferita al Consiglio europeo.

Articolo 48 TUE: Procedura di revisione semplificata

La procedura semplificata può essere avviata, come quella ordinaria, da un Governo di uno Stato membro, dal Parlamento europeo, o dalla Commissione, sottoponendo un progetto di modifica non al Consiglio dell’Unione europea ma direttamente al Consiglio europeo. Questo progetto deve riguardare una modifica parziale o integrale della parte terza del TFUE - di cui sopra - che però non intenda accrescere le competenze UE.

Il Consiglio europeo può decidere di dare applicazione al progetto di modifica: dopo aver consultato il Parlamento europeo, la Commissione e - in caso di modifiche all’assetto monetario - la BCE, deve votare all’unanimità in favore del progetto. Ottenuto il favore del Consiglio europeo, per essere applicate, le modifiche devono essere approvate da tutti gli Stati membri - non si parla di ratifica, ma di generiche «norme costituzionali».

Viene specificato, nel paragrafo 7 dell’articolo 48, che il Consiglio può anche non decidere all’unanimità (uno dei nodi politici cruciali) come richiedono il TFUE o il titolo V del TUE, ma può decidere con una maggioranza qualificata (non per questioni militari o che riguardano la difesa).

Per farlo, deve proporlo ai Parlamenti nazionali, che entro sei mesi devono notificare la loro eventuale contrarietà (in tal caso, la decisione di sposare il criterio della maggioranza qualificata viene respinta); e al Parlamento europeo, che deve approvare con maggioranza assoluta la proposta. Se la proposta non viene osteggiata, la palla torna al Consiglio europeo, che deve decidere all’unanimità di non decidere all’unanimità.

Il Governo italiano ha un piano per cambiare l’UE?

Le procedure sono complesse e richiedono un enorme grado di complicità politica (modo carino di accennare all’unanimità e alla ratifica di tutti gli Stati membri). Non basta avere una maggioranza all’interno del Consiglio europeo e neanche guidare un blocco di Stati. L’ultima volta che fu modificato un Trattato fu con la decisione del Consiglio europeo del 25 marzo 2011, per introdurre il MES.

Mettere tutti d’accordo sembra una sfida impossibile, forse anche per l’autorevolezza del Premier Draghi. Ma poniamo che basti. La domanda successiva è: dov’è il progetto di modifica? Il Premier vuole che a proporlo siano la Commissione o il Parlamento europeo e non il Governo italiano? Vuole prima sondare il terreno per capire che aria tira nel Consiglio europeo, che è il playmaker delle procedure di revisione?

L’iter è ancora lungo e il Premier non sembra avere fretta. Poniamo venga proposto un progetto alla fine del 2022 e che venga utilizzata la procedura ordinaria, visto che Draghi è tra quelli (almeno a parole) che vorrebbero accrescere le competenze UE. Dalla proposta, ci vorranno circa due anni per ratificare tutti le modifiche elaborate.

L’ultima domanda da farsi è: se alla fine del 2024 non sarà avvenuta l’unanime ratifica, se a Draghi dicessero di no, cosa si dovrebbe fare?

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