La Brexit costa molto più al Regno Unito che all’UE: un primo bilancio

Violetta Silvestri

01/02/2022

Cosa significa a livello pratico la Brexit, con l’applicazione del Trade and Cooperation Agreement? Quale primo bilancio per l’UE e il Regno Unito in termini commerciali? L’analisi con un esperto.

La Brexit costa molto più al Regno Unito che all’UE: un primo bilancio

Un anno di Brexit, cosa è cambiato?

Avere un termometro concreto su cosa effettivamente è mutato a livello commerciale per aziende e imprenditori dopo l’entrata in vigore del Trade and Cooperation Agreement tra UE e Regno Unito non sempre è agevole se non si è quotidianamente coinvolti nelle attività import/export tra i due storici partner.

Sebbene da non sopravvalutare, il “terremoto” Brexit non va nemmeno dimenticato considerando che, a oggi, plasma la fitta rete di rapporti commerciali e politici strategici sia per il Regno Unito che per l’UE. I due protagonisti, infatti, restano più alleati che nemici, consapevoli del valore irrinunciabile delle loro relazioni.

L’uscita britannica dall’Unione è ormai un dato di fatto: quale primo bilancio per le aziende europee, inglesi, italiane? Quale attore sta pagando di più il prezzo della novità?

Per rispondere a questi interrogativi e capire dove stanno andando UE e Regno Unito nel post-Brexit, Money.it ha intervistato Paolo Massari.

Socio fondatore, insieme a Lucia Iannuzzi, delle società di consulenza doganale C-TRADE (2015) e Overy (2021) è un esperto in materia di dogana, Iva comunitaria ed accise, nei cui ambiti può vantare esperienze professionali presso l’Agenzia delle Dogane, Gruppo FCA e Studio Tributario Societario network Deloitte.

Insieme a Lucia Iannuzzi, Massari sta lavorando al libro, presto in uscita, intitolato Brexit & Dogana. Aspetti politici, doganali, fiscali, che si propone come una guida utile su tutte le novità introdotte.

La Brexit è ormai una realtà per l’UE. E per il Regno Unito?

Alla domanda su quale sia, attualmente, la situazione commerciale dopo il divorzio UE-UK e, nello specifico, a che punto si trovino le aziende coinvolte, Paolo Massari non ha avuto esitazione a rispondere che sul fronte unionale la “Brexit è realtà”.

Una affermazione dalla quale partire per evidenziare le differenze su cosa stia realmente accadendo in Unione Europea e nel Regno Unito.

Il quadro è stato così sintetizzato dall’esperto:

“l’UE si è ormai pienamente adeguata al testo dell’accordo pubblicato definitivamente a fine aprile [Trade and Cooperation Agreement], con le dogane comunitarie attente alle normative previste dal trattato, perché si sono mosse in anticipo, come accaduto in Francia, o comunque in tempo per essere operative con la Brexit.”

Diverso, invece, il caso inglese. Da parte UK non sono mancati differimenti nell’applicazione del trattato, giustificati con la poca preparazione del tessuto economico britannico in generale, non solo in ambito doganale, ma anche in termini di prontezza da parte delle singole aziende.

Ne sono scaturiti diversi ritardi nell’entrata in vigore, per esempio, dei controlli su merci alimentari, agricole o animali, e la modifica del calendario sull’applicazione delle misure. Come suggerito da Massari, il bilancio finora è stato di un atteggiamento piuttosto oscillante e poco chiaro da parte del Regno Unito dinanzi alla Brexit, dovuto innanzitutto a un problema tecnico sui tempi necessari per il sistema economico e aziendale ad adeguarsi alle novità.

Da sottolineare, secondo l’esperto che, effettivamente, una differenza di “cultura doganale” tra UE e Regno Unito è emersa palesemente con la Brexit. Gli inglesi, infatti, hanno dovuto investire enormemente in sistemi informatici per le dogane e incrementare spedizionieri doganali, assolutamente insufficiente per i controlli.

Un gap da colmare è stato anche quello logistico, per esempio a Dover, dove ancora oggi non sono stati completati i lavori di adeguamento degli spazi per le soste dei mezzi per le merci. L’impreparazione, quindi, c’è stata.

Tuttavia, restano dubbi sul fatto che questa incertezza si possa tradurre anche in una manovra tendente a non voler applicare alcuni parti dell’accordo.

Quanto è davvero cambiato il commercio UE-UK

Come logicamente prevedibile, il passaggio alla realtà Brexit ha avuto iniziali ripercussioni anche sulle attività commerciali delle imprese europee.

Il cambiamento nei rapporti, sebbene sia avvenuto considerando il Regno Unito come Paese terzo ma preferenziale per l’UE, ha comportato più oneri doganali, maggiori tempi e costi per operazioni di controllo e conseguenti soste dei mezzi prima di fornire la merce a destinazione.

Maggiori preoccupazioni erano sorte in Francia, che ha frontiere strategiche per le merci con il territorio britannico. Il Governo, però, si era ben equipaggiato con misure ad hoc a livello telematico che consentissero check efficienti e rapidi.

I ritardi che si sono verificati all’inizio sono stati quindi connaturati all’adeguamento alle novità. Tuttavia, una volta che tutto il sistema si è settato, non ci sono stati particolari problemi per le aziende italiane e, in generale, per quelle europee.

In sintesi, come ha specificato Massari, è chiaro che la Brexit costa, molto più per l’Inghilterra, ma costa. Le aziende hanno subito la decisione, assorbendo i costi extra, ma ora le imprese italiane e comunitarie hanno incorporato tali costi e non hanno particolari problemi.”

Che esista uno squilibrio nell’impatto della Brexit su UE e Regno Unito è stato testimoniato da quanto accaduto in UK quest’estate, con forniture nei supermercati inglesi in tilt. Paolo Massari ha ben sintetizzato la situazione dei mesi estivi:

“I problemi sul consumatore e sui cittadini comuni sono stati più inglesi che europei, non solo per i ritardi dovuti alle dogane, ma anche per la mancanza di autotrasportatori, solitamente dell’UE, venuti a mancare con la politica inglese sui visti del post-Brexit.”

Osservando l’UE e la stessa Italia, la situazione è invece consolidata e non ci sono stati effetti così impattanti sulla gestione dei traffici commerciali, che sono rimasti più o meno ai livelli pre-Brexit.

Le statistiche italiane confermano volumi di scambio più o meno invariati rispetto a prima del divorzio: i settori meccanico, automobilistico, tessile, del food sono ancora cruciali nel commercio Italia-UK.

Pur considerando che il Regno Unito ha, come intuibile, incrementato le quote di commercio extra-UE, facendosi strada verso mercati soprattutto asiatici (non a caso sta intessendo relazioni con l’India attualmente) l’Italia resta un partner strategico e ben caratterizzato.

L’import inglese dell’agroalimentare, per esempio, difficilmente può essere sostituito con i beni del Sud-Est asiatico.

L’esperto ha sottolineato come molte imprese nazionali hanno avuto specificatamente problemi in territorio inglese, poiché in alcuni casi la normativa prevede che deve essere il soggetto italiano a sdoganare l’Inghilterra alle importazioni, con la necessità di creare una partita IVA inglese, una società soltanto a riconoscimento fiscale e altre procedure. Gli uffici britannici hanno avuto un incremento altissimo di domande e hanno ritardato l’espletamento delle pratiche per le forniture in Inghilterra.

Massari ha spiegato che: “dall’altra parte del flusso, ovvero di beni in uscita dal Regno Unito verso l’UE, non ci sono stati problemi. Gli inglesi hanno subito di più perché l’UE non ha dovuto modificare nulla, se non fare dogana.”

In sintesi, da parte UE c’è stata quanto meno coerenza e compattezza fino alla fine nel voler difendere i termini del trattato.

Quel che è mancato, a detta dell’esperto, è stata una tempestiva comunicazione UE delle novità amministrative e procedurali alle aziende. L’incertezza fino all’ultimo sulla firma del Trade and Cooperation Agreement, che andava proprio a stabilire tutti i temi economici e commerciali, ha ritardato i tempi nell’informare adeguatamente le imprese di cosa stesse cambiando. In Italia, per esempio, questo è stato un iniziale ostacolo all’operatività aziendale con la Brexit. Alcuni Paesi invece, come Francia, Olanda, Belgio, molto più coinvolti nelle dinamiche commerciali e doganali, hanno aggiornato più prontamente le loro aziende.

A oggi, però, si può dire che per la maggior parte delle imprese comunitarie, anche italiane, la Brexit sia “almeno digerita”. Con un solo scoglio ancora da superare per tutti: il nodo Irlanda del Nord.

La Brexit si gioca, ancora, in Irlanda

Paolo Massari lo ha esplicitamente sottolineato: per scrivere davvero la parola fine al complesso processo della Brexit bisognerà risolvere la questione irlandese.

Da sapere che nell’architettura dell’accordo di recesso l’Irlanda del Nord è rimasta territorio unionale. Questo è stato deciso per evitare che, con l’uscita del Regno Unito dall’Unione, si potesse ricreare una barriera fisica tra Repubblica d’Irlanda (Stato UE) e il resto del territorio facente parte dell’UK.

Il confine è una questione delicata a causa della storia dell’Irlanda del Nord e degli accordi presi per portare la pace, che includevano la rimozione dei segni visibili di una barriera.

Durante i negoziati, tutte le parti hanno convenuto che la protezione dell’accordo di pace dell’Irlanda del Nord del 1998 (l’accordo del Venerdì Santo) fosse una priorità assoluta.

Così è nato il Protocollo dell’Irlanda del Nord secondo il quale il territorio è formalmente al di fuori del mercato unico dell’UE, ma su di esso si applicano ancora le norme unionali sulla libera circolazione delle merci e doganali.

Al posto di una frontiera terrestre, il protocollo ha creato de facto una barriera doganale lungo il Mare d’Irlanda e le merci in arrivo a Belfast dal resto del Regno sono ora soggette a controlli doganali e fitosanitari.

Il Regno Unito appare sempre più infastidito da questa situazione e vorrebbe eliminare i controlli. Ecco perché la questione è aperta e delicata.

Come suggerito da Massari, “l’Irlanda del Nord è una finestra dell’Unione Europea sull’Inghilterra. Non effettuare controlli sulle merci che transitano dall’UK in Irlanda del Nord per l’UE significa di fatto dare la possibilità a “soggetti spregiudicati” di violare le normative protezionistiche vigenti in Europa.”

Un abbandono di questo accordo sarebbe un grande problema, ma proprio l’importanza che esso ha fa ipotizzare che una soluzione sarà certamente trovata.

Nonostante l’atteggiamento aggressivo, è improbabile che Londra voglia sospendere l’applicazione del Trade and Cooperation Agreement per la questione irlandese, ha sottolineato l’esperto. Piuttosto, cercherà di ottenere qualche concessione unionale, sempre che la UE sia disposta a cedere su questo punto.

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