Escalation di colpi incrociati sull’asse Washington-Pechino. L’America punta al ruolo di «cavaliere bianco», rilanciando la tesi su Wuhan e rinunciando al brevetto (ormai inutile a livello di business) sui vaccini, mentre Pechino mette nel mirino l’alleato indo-pacifico. Una strategia benedetta da Henry Kissinger che Wall Street potrebbe però mal digerire.
Il G7 attacca frontalmente Cina e Russia nel suo documento finale, anteponendo la questione legata all’atteggiamento destabilizzante di Mosca in Ucraina e della Cina in Tibet e Xinjiang alle emergenze economiche e sanitarie della pandemia. Di fatto, una scelta tutta politica. Certamente, non dettata da un’agenda di reale e immediata priorità. Contemporaneamente, il Bullettin of the Atomic Scientists - rivista non tecnica e ampiamente prona a derive ideologiche da maccartisimo fuori tempo massimo, non fosse altro per aver inventato nel 1947 l’Orologio dell’Apocalisse - sparava in prima pagina del suo ultimo numero un’inchiesta il cui titolo era tutto un programma: The origin of COVID: Did people or nature open Pandora’s box at Wuhan? Un’accozzaglia di luoghi comuni e teorie simil-complottistiche già circolanti da mesi rispetto alla natura bio-ingegneristica del virus nato nel laboratorio cinese, il cui unico scopo appare quello di aumentare la pressione politica su Pechino. All’interno dell’articolo, infatti, non una sola prova concreta. Soltanto ipotesi, tanto campate in aria quanto facilmente tramutabili in oggetti di like compulsivo sui social.
Esattamente ciò che serve. Terza coincidenza, terzo puntino da unire sulla mappa per capire in quale direzione stiano andando gli equilibri globali: di colpo, l’America scopre di essere totalmente a favore della tesi dell’OMS rispetto alla rinuncia sui brevetti vaccinali. Zio Sam salva il mondo, sacrificando Big Pharma in nome del siero per tutti, nazioni povere in testa. Praticamente, la sceneggiatura di un brutto film di propaganda reaganiana. Peccato sia la realtà. E peccato che, questa volta, Pechino non abbia ignorato l’offensiva ai suoi danni. Dopo aver aver bollato il documento finale del G7 come un’inaccettabile intromissione nei nostri affari interni, il governo cinese è infatti passato dalle parole ai fatti: sospensione a tempo indeterminato di tutte le relazioni commerciali con l’Australia regolate dal China-Australia Strategic Economic Dialogue. Come mostra il grafico, il dollaro australiano non ha gradito.
Fonte: Bloomberg
Perché una mossa simile? Per inviare un messaggio. Primo, già nel 2018, l’Australia mise al bando Huawei dalla propria rete 5G, seguendo le orme dell’amministrazione Trump e citando ragioni di sicurezza nazionale. Dopodiché, seguirono accuse incrociate a cadenze pressoché fisse: Canberra fu infatti fra i primi soggetti a chiedere un’inchiesta indipendente sul laboratorio di Wuhan, scatenando un blocco dell’export cinese che, a sua volta, portò gli australiani a cancellare due accordi siglati dallo Stato di Victoria in seno alla Belt and Road Initiative con la Cina. Detto fatto, Pechino accusò l’Australia di sostegno a gruppi terroristici e di destabilizzazione nello Xinjiang. Insomma, tensione. Ora, la rottura: In un mondo di tensioni perpetue, il tamburo della guerra batte i suoi colpi. A volte in lontananza e attutiti, a volte più forte e vicino, ha dichiarato il numero uno del Department of Home Affairs austrialiano, Mike Pezzullo. Un mese fa. Quasi il casus belli fosse nell’aria. O già pronto.
Come confermato pochi giorni prima dal ministro della Difesa di Canberra, Peter Dutton, il quale nel mettere tutti in guardia sulle tensione nell’area indo-pacifica, stigmatizzò la militarizzazione in atto nella regione e la crescente tensione fra Cina e Taiwan. Casualmente, centro nevralgico mondiale della produzione di semi-conduttori, il Sacro Graal della ripresa industriale globale. In mano alla Cina. E senza scordare l’interesse strategico di Usa e Giappone nel preservare le terre rare australiane dal monopolio cinese di quei materiali di fondamentale importanza strategica, tanto da aver spinto Washington nel 2019 a siglare con Canberra un piano di cooperazione relativo ai 17 elementi chimici divenuti la chiave d’accesso al mondo 2.0.
Fonte: Statista
E a fornire un ulteriore spoiler di quanto stia accadendo sotto traccia ci ha pensato il 4 maggio scorso un grande vecchio come Henry Kissinger, il quale - parlando al Sedona Forum on Global Issues del McCain Institute - ha definito la Cina, il più grande problema per gli Stati Uniti. Anzi, il più grande problema per il mondo. Questo perché se non verrà risolto, allora il rischio è quello di un progressivo sprofondare a livello globale in una nuova Guerra Fredda permanente fra Pechino e Washington. Concetto chiaro. E che qualcosa fosse in movimento lo mostrano anche questi due grafici,
Fonte: Fathom
Fonte: Financial Times
le due facce della stessa medaglia. Il primo mostra come già da settimane gli investitori statunitensi stessero scaricando titoli in seno al Fathom’s China Exposure Index (CEI), l’indice che misura le performance di aziende quotate americane che fanno business in Cina. E business a livello esiziale, visto che si parla di revenues che dipendono da Pechino fra il 15% e l’85% del totale. L’America aveva cominciato la sua guerra finale, inviando un segnale di deleverage che implica un sganciamento - forse prima simbolico che fattuale - da una sua fondamentale catena di fornitura? Il secondo grafico mostra invece come la metà delle 36 IPO di aziende straniere registrate negli Usa nei primi tre mesi dell’anno facesse capo a nomi cinesi, nonostante le già montanti tensioni fra Washington e Pechino. Di più, sono oltre 60 le aziende del Dragone che hanno già presentato domanda di quotazione a Wall Street per quest’anno.
Insomma, le start-ups cinesi non paiono preoccupate dalla minaccia di de-listing lanciata da Donald Trump sul finire della sua amministrazione. E questo grafico
Fonte: Matthews Asia
mostra come negli anni l’America finanziaria si sia preoccupata più di incamerare commissioni che di proteggere le sua proprietà intellettuale da «infiltrazioni» cinesi nei gangli del potere. Lo stesso pare valere in questi giorni. Insomma, i prodromi di una nuova Guerra Fredda sono già tutti sul tavolo e nelle ultime 24 ore sono emersi in maniera plateale. Quantomeno, volendo guardare anche sotto il pelo dell’acqua. In molti scommettono su un ritorno in grande stile del caso Wuhan, tratteggiandone già l’utilizzo strumentale - sia a livello di politica interna Usa che estera - sulla falsa riga del Russiagate e delle intromissioni del Cremlino.
In tal senso, una fonte di mercato con particolare attenzione ai suoi risvolti geopolitici, fa notare due eclatanti incongruenze già in atto nella narrativa ufficiale. Primo, la mossa dell’inviato Usa per il commercio e relativa ai brevetti sui vaccini appare propedeutica proprio a un utilizzo propagandistico della questione legata al laboratorio di Wuhan, imponendo un’immagine di contrapposizione netta fra chi ha creato il problema e chi sacrifica gli interessi di Big Pharma per cercare di risolverlo. Peccato nessuno dica che quei brevetti, ormai, non contino più nulla a livello di business per le grandi aziende, poiché il vero affare già oggi è quello della lotta alle varianti e all’endemia, ovvero i prodotti - come ad esempio pillole per via orale o quelli per la fascia under-20 - per il contrasto di lungo termine del virus.
Secondo, una strategia simile rischia di avere corto respiro e di tramutarsi in fretta in un’arma a doppio taglio. Perché Pechino ci metterà poco a ricordare a chi di dovere le parole del professor Fauci, il quale sottolineò come la nebbia internazionale attorno al laboratorio di Wuhan fosse dovuta principalmente alla necessità statunitense di nascondere come i test sul coronavirus fossero stati in grandissima parte finanziati dallo US National Institutes of Health. Il dottor Stranamore è tornato.
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