Mentre Evergrande assume e fa ripartire i cantieri, alla faccia dei downgrade, Pechino ha operato la fusione fra i tre colossi delle rare earths. Ora il 70% della produzione è a controllo governativo
In attesa del Godot del suo default, Evergrande ha comunicato la riattivazione del 92% dei suoi progetti immobiliari. Non male per un moribondo, tanto più che all’inizio di settembre la percentuale non arrivava al 50%. Nel mezzo, la crisi che avrebbe dovuto regalarci la Lehman cinese. E sempre rispetto a tre mesi fa, il numero di lavoratori impiegati nei cantieri è salito del 31%, toccando oggi quota 89.000 unità.
Entro la fine della settimana, poi, Evergrande conta di rispettare la propria tabella di marcia per le consegne di 39.000 unità abitative, facenti capo a 115 progetti dei 778 totali che l’azienda vanta in 233 città cinesi. Certo, il muro di scadenze obbligazionarie che la attende nel 2022 è di quelli ardui da scavalcare ma non certo insormontabile come certi rating lascerebbero credere. Il governo cinese è stato chiaro in tal senso, visto che il ministro per la Casa e lo Sviluppo urbano-rurale, Wang Menghui, ha confermato l’impegno di Pechino per una stabilizzazione dei prezzi e del mercato. Il tutto, però, senza utilizzare la politica abitativa come strumento di stimolo a breve termine. Niente SuperBonus per i compagni cinesi.
Ma mentre il mercato seguiva ossessivamente il calendario delle scadenze obbligazionarie di Evergrande e soci, temendo l’innesco del proverbiale Minsky moment da parte del settore immobiliare, ecco che la Cina si è impegnata in altro. Stando a quanto riportato dal Financial Times, le autorità di Pechino hanno infatti approvato la fusione di tre delle più importanti aziende del comparto delle terre rare del Paese, creando di fatto una powerhouse statale del settore che si tramuterà nel principale produttore al mondo di risorse strategiche. Il tutto, ovviamente, garantendo al governo il controllo totale sull’industria.
Dalla scorsa settimana, quindi, China Minmetals Rare Earth Co. si è unita a Chinalco Rare Earth and Metals Co. e Ganzhou Rare Earth Group, assumendo la nuova denominazione di China Rare Earth Group e dando vita a un conglomerato in grado di controllare il 70% dell’intera produzione cinese di terre rare, i 17 minerali divenuti nel tempo il Sacro Graal dell’industria 2.0, essendo fondamentali per gli ambiti produttivi più disparati, dai prodotti di elettronica alle auto elettriche fino alle turbine eoliche. Insomma, Pechino non solo intende controllare a livello politico quella che appare un’arma strategica nella guerra di concorrenza, bensì anche consolidare un’industria di punta attraverso la soppressione della principale criticità che le fa capo: gli scostamenti furiosi dei prezzi.
Quando il 70% del prodotto è riconducibile a un unico soggetto, il cui proprietario è uno Stato come quello cinese, lanciarsi in avventure speculative equivale a un suicidio annunciato. Esattamente la medesima strategia utilizzato dal governo in comparti come trasporti ferroviari e linee marittime commerciali, al fine di prevenire sul nascere tentazioni di concorrenza nelle ricerca di lucrosi contratti esteri fra i tre grandi gruppi appena unitisi. Non possiamo lasciare che le forze di mercato determinino quanto dovrebbero costare le terre rare, questo alla luce della loro importanza strategica. Dobbiamo mantenere le valutazioni stabili, cosi che gli utilizzatori finali possano controllare i costi e muoversi lungo la catena di valore, ha dichiarato una fonte vicina alla Ganzhou Rare Earth.
E l’importanza di quanto appena deciso a Pechino viene sottolineata da Daan de Jonge dell’azienda di consulenza CRU Group, a detta del quale il potere di fare prezzo per terre rare di importanza chiave come disprosio e terbio oggi è terminato nelle mani di questo super-gruppo. Dato che la maggior parte di investimenti in rare earths fuori dalla Cina è concentrato sulla categoria light, la logica conseguenza è che Pechino avrà de facto il controllo delle valutazioni di terre rare pesanti e notoriamente volatili nel prezzo. Fin a quando non arriverà sul mercato nuova capacity, questa sarà la gerarchia. E ci vorranno molti anni prima di spodestarla.
E quale possa essere l’effetto Big Bang lo dimostra il fatto che da quando Xi Jinping, nel culmine della disputa commerciale contro gli Usa di Donald Trump due anni fa, ha deciso di puntare strategicamente sulle terre rare, l’indice dei prezzi calcolato dalla Baotou Rare Earth Product Exchange della Mongolia Interna ha segnato un aumento di oltre il 40%. Ora, the sky is the limit. E avendo avanzato del tempo, fra una stabilizzazione del mercato real estate e una fusione epocale, Pechino ha deciso anche di muovere le sue pedine sullo scacchiere del Pacifico, tanto per pestare i piedi all’Australia e inviare così un segnale chiaro a Usa e Regno Unito.
Il primo ministro delle Isole Salomone, Manasseh Sogavare, ha infatti confermato di aver dato il via libera alla proposta cinese di assistenza e addestramento delle proprie forze anti-sommossa in previsione di future rivolte interne. Uno smacco enorme, poiché soltanto lo scorso novembre circa 120 uomini di Federal Police e Australian Defence Force di Canberra furono dispiegati nell’Isola con la medesima finalità. La disputa sul riconoscimento di Taiwan, di fatto, ha cambiato nettamente gli equilibri. In un batter d’occhio. Mi raccomando, noi continuiamo ossessivamente ad attendere il Godot del defaulti di Evergrande. Mentre Pechino gioca indisturbata a Risiko con il mondo e monopolizza il mercato del futuro.
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