L’UE si trova in una fase delicata, in cui deciderà il suo futuro. C’è chi vorrebbe modificare le regole e chi mantenerle così: Draghi si esprime a favore di un nuovo assetto, ancora non chiaro.
A Strasburgo si sta tenendo la Conferenza sul futuro dell’Unione europea. Tra gli aspetti acclamati, la possibilità per i cittadini di esprimersi, di fare proposte e confrontarsi direttamente con la classe politica europea (commissari e parlamentari). I lavori si concluderanno nella primavera del 2022, quando, come si suol dire, dovrà essere cavato un ragno dal buco: bisognerà elaborare una proposta concreta.
Attualmente, ci troviamo ancora nella fase di emergenza, che ha portato i vertici UE a sospendere le regole di bilancio, condensate, oltre che nei Trattati europei (TUE e TFUE), nel Patto di Stabilità e Crescita e nelle sue «appendici», il Six Pack e il Fiscal Compact. All’orizzonte, nel 2023, c’è la fine della sospensione.
È in corso un susseguirsi di dichiarazioni, dai vertici europei, fino agli osservatori politici, sul possibile e auspicabile nuovo quadro di regole. Ancora non è chiaro se si tornerà alle vecchie regole, o ce ne saranno di nuove. In questo panorama incerto provano a dire la loro anche gli attuali rappresentanti italiani in UE più rilevanti per ruolo: il Presidente del Consiglio Draghi e il Commissario europeo Gentiloni.
Quali sono le regole UE
Le regole di cui si parla riguardano le politiche di bilancio all’interno dell’UE. Il primo tassello fu il Trattato di Maastricht (1992), che oggi, dopo varie modifiche e integrazioni, è racchiuso ne «i Trattati» (TUE e TFUE), ossia l’insieme fondamentale di regole dell’UE. All’interno del Trattato, vennero inseriti dei parametri che servivano a indicare degli obiettivi verso cui far convergere le economie europee e in particolare precetti per le politiche fiscali (decisioni su tassazione e spesa pubblica), che erano e sono rimaste in mano agli Stati membri.
Stiamo parlando del famoso 3% di rapporto deficit/Pil e il 60% di rapporto debito/Pil. La logica era: puntare a mantenere costanti questi valori, convergere tutti verso di essi, per ottenere un’omogeneità delle economie - e dunque una sorta di automatica integrazione.
In realtà, a prescindere dal fatto che questi parametri non abbiano nessuna base scientifica - come oggi viene ammesso dagli stessi artefici -, o forse proprio per questo, nel tentare di rispettare questi parametri, nel tentare di convergere, si è ottenuta la divergenza. Nessuno al mondo consigliava, né seguiva, né tutt’ora segue precetti simili. Solo all’interno dell’UE si è affermata questa sorta di religione del 3 e del 60%.
Nel 1997 venne poi firmato il Patto di Stabilità e Crescita (PdSeC), che serviva a dotare le istituzioni europee (principalmente la Commissione europea) di strumenti di controllo sulle politiche fiscali degli Stati membri. Dopo la crisi 2008, nel 2011, con l’introduzione del Six Pack e del meccanismo del semestre europeo, si è rafforzata ancora di più la sorveglianza, contraddicendo de facto il principio di autonomia delle politiche fiscali degli Stati membri, in nome del principio di coordinamento di quest’ultime.
L’era della famigerata «austerità»
Se tutto ciò fosse avvenuto in nome della crescita e della lotta a politiche restrittive, avrebbe riscosso probabilmente successo. Tuttavia, è avvenuto l’esatto opposto: le politiche fiscali sono state indirizzate verso la cosiddetta austerità, ossia il contenimento - e in alcuni casi la distruzione - della domanda interna, che ha causato forte malcontento tra i popoli europei.
Ma in un certo senso l’austerità è strutturale, è implicita nelle regole. E a chi critica, dicendo che in fin dei conti non siano mai state rispettate, bisogna ricordare due aspetti. In primis, guardare i dati sul saldo primario italiano, ricordati anche dal Presidente Mattarella (in senso positivo, come Italia virtuosa e frugale che ha risparmiato): l’Italia ha per quasi un trentennio costantemente (eccetto nel 2009) speso (al netto degli interessi) meno di quanto ha prelevato con le tasse, col risultato di un drenaggio di circa un trilione di euro dall’economia. Dunque l’Italia è sì virtuosa, ma solo nel senso che ha rispettato regole che oggi vengono definite stupide dagli stessi che le hanno scritte.
In secondo luogo, l’assenza delle procedure di infrazione (uno dei fiori all’occhiello del PdSeC), se portata come argomento in favore di Commissione e UE, è in realtà un altro nonsenso. Esistono notoriamente due forme di libertà: attiva (libertà di) e passiva (libertà da). Se la libertà (passiva) dalla procedura di infrazione è stata rispettata, non si può dire lo stesso della libertà (attiva) di far crescere il paese utilizzando la leva fiscale (vuoi con più spesa pubblica, vuoi con meno tasse), si pensi al braccio di ferro tragicomico del 2018 per fare il 2,04% - e non il 2,4% desiderato - di deficit.
Detto in altri termini, se può anche essere vero che non siamo stati condannati all’inferno, è parimenti vero che non ci siamo ritrovati in paradiso. La dimensione perimetrata dall’attuale assetto istituzionale europeo è infatti simile a un limbo.
Le proposte di modifica accennate
Con l’inizio della pandemia e l’ingresso, a detta di tutti, in un «nuovo mondo», tutti i tabù, a partire da quello delle regole di bilancio, sono venuti meno. Per molti è semplicemente l’effetto dell’emergenza, la crisi che ha dettato le nuove regole. Tuttavia, in crisi c’eravamo da tempo - e se anche meno grave di quella attuale, sicuramente non poco grave in assoluto. Però, a quanto pare, serviva una stagione di lockdown generalizzati per far smuovere il masso del rigorismo.
Per molti le regole vanno cambiate, per altri hanno funzionato e sono sufficientemente flessibili. È il caso del vicepresidente della Commissione europea Dombrovskis, che si è detto soddisfatto riguardo l’attivazione della cosiddetta clausola di salvaguardia (la regola per cui in caso di emergenza si fa a meno delle regole). A quanto pare la clausola basta e avanza, visto che non auspica una modifica dei Trattati, mentre ripete il mantra della riduzione del debito.
Altri, come Klaus Regling, il direttore del MES, vorrebbero togliere la regola sullo stock di debito (ossia il mantenimento - o il raggiungimento in caso di eccesso - del 60% del rapporto debito/Pil), però manterrebbero volentieri la regola del 3%. È stata poi messa sul tavolo la cosiddetta green golden rule, che prescriverebbe lo scorporamento degli investimenti green dal conteggio dei deficit.
Ancora non è chiaro come si posizionerà la Germania, la cosiddetta locomotiva (anche se in affanno), col suo nuovo Governo. Alcune dichiarazioni lasciano intendere che vogliano seguire una linea simile a quella di Dombrovskis. Il banco di prova sarà il 2022, con la fine della Conferenza sul futuro dell’Unione europea e una trattativa in seno al Consiglio europeo (l’organo ufficiale di indirizzo politico dell’Ue, in cui si incontrano i primi ministri dei Paesi membri).
Cosa sperano Draghi e Gentiloni
L’Italia ha come figure centrali nei consessi europei il suo Commissario (ogni Stato membro ne esprime uno), Paolo Gentiloni, esponente del PD nonché ex Presidente del Consiglio, e - ovviamente - Mario Draghi. Entrambi si sono espressi in favore di nuove regole, in quanto, come già noto, concentrarsi sul debito di per sé, in valore assoluto, non ha nessun senso economico. Quando se ne parla, infatti, lo si mette in rapporto al Pil e alla sua crescita (stessa cosa per il deficit, la parte di spesa eccedente le tasse).
L’argomento che utilizzano Draghi e Gentiloni è riassumibile così: le sfide che ci siamo posti (digitale e green) costano; il fabbisogno finanziario richiesto, che si aggira intorno ai 1000 miliardi all’anno - a livello aggregato europeo si intende -, se sommato a quello delle altre «sfide», come un sistema di prevenzione di nuove pandemie e la difesa europea, impone un quadro di regole diverso. «Abbiamo un anno per parlarne» dice Draghi «per maturare punti di vista realistici».
Posto che andrebbe chiarito cosa si intende per realistici, la posizione del Premier - che è la stessa di Gentiloni - è sfruttare il 2022, l’ultimo anno prima della fine della sospensione delle regole, per ridiscutere l’assetto europeo. Alcuni osservatori lo pongono alla guida di un già sentito blocco del Sud Europa, dei cosiddetti PIGS, che comprende Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, con l’incognita Francia, che nel 2022 cambierà Presidente - e primo ministro.
Basterà la tanto acclamata credibilità di Draghi per far cambiare direzione definitivamente all’Unione europea?
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