La protesta dei sindacati da un lato, l’ostilità della politica dall’altro. I lavoratori delle PA non hanno risposte, solo qualche vago interrogativo.
Il picco dei contagi delle ultime settimane preoccupa numerosi italiani che stanno per tornare in ufficio. La voce dei maggiori sindacati legati al mondo della Pubblica Amministrazione in questo contesto è tuttavia quella più netta e chiara a riguardo. Le richieste che i vari gruppi avanzano al governo confluiscono tutte in una direzione: disporre il ripristino dello smart working con annessa revisione dell’ultimo decreto che disciplinava il ritorno in presenza per i dipendenti PA.
La celebre avversione del ministro Brunetta alla pratica sarà lo scoglio maggiore da superare anche se in realtà, il vero fulcro del dibattito non dovrebbe essere solo e soltanto l’umore di un singolo, bensì i cambiamenti sostanziali che dovrebbero essere apportati per giungere ad un modello di lavoro agile degno di questo nome che non comprometta la salute dei singoli ma neanche la qualità del servizio offerto ai cittadini.
Provando a dare uno sguardo agli studi condotti in materia e allo stato attuale delle cose per come viene dipinto dalle varie associazioni di categoria, indaghiamo il futuro in cui questo settore è chiamato a muoversi.
Fioccano le lettere dei sindacati
La critica al decreto della Funzione Pubblica che il 15 ottobre 2021 riportò tutti i dipendenti PA in ufficio è ampiamente condivisa dalle sigle sindacali, anche perché le parole del ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta non si sono realizzate.
“Con la vaccinazione di massa il rientro al lavoro sarà sicuro”.
Lo dichiarò lui stesso in un’intervista a Il Messaggero, ma le regole del gioco sono cambiate. Con una variante che miete insicurezze a causa dell’alto tasso di trasmissibilità non c’è da star sicuri.
Nelle tante comunicazioni inoltrate al premier Mario Draghi, al ministro della Salute Roberto Speranza, a quello della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta e in alcuni casi anche al coordinatore del Cts Franco Locatelli, si leggono esempi di riflessioni sul tema:
«Stiamo assistendo ad un crescente aumento dei contagi con conseguenti misure di quarantena - sottolinea il segretario generale Confsal Angelo Raffaele Margiotta - che moltiplicano le assenze a dismisura. Forte è il disagio per le attività lavorative ordinarie e grande la preoccupazione tra i lavoratori per l’effetto che tale situazione potrebbe determinare anche nell’ambito familiare».
Pensare all’assetto familiare è anche l’invito di Marco Carlomagno, segretario generale Flp, che ha parlato di conciliazione vita-lavoro come di un fattore di modernizzazione delle nostre amministrazioni pubbliche. Da una questione sanitaria infatti in alcuni casi si passa ad una richiesta permanente.
Altra via percorribile, stavolta per la segretaria generale di Confintesa Claudia Ratti, sarebbe il ripristino dello smart working come modalità ordinaria di lavoro almeno fino al 31 marzo, cioè fin quando durerà lo stato di emergenza.
Per sottolineare poi i benefici di questa prospettiva, sia di lungo che di “breve” periodo, c’è anche la visione delle segretaria generale dei sindacati Flepar e Codirp Tiziana Cignarelli. Cignarelli parla infatti di lavoro agile perché questo “consentirebbe di ridurre i costi della macchina statale, favorendo criteri di valutazione basati sui risultati”.
L’avversione del governo è fondata?
È proprio sulla produttività che tuttavia si basano le battute di arresto della controparte politica. Al generale malcontento però non sono stati accompagnati dati statistici di supporto che invece, in senso contrario, arrivano da vari enti preposti.
La posizione dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, a settembre del 2021, era ben diversa visto che questa pratica veniva definita come «una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati».
I dati raccolti dal Politecnico stesso indicavano incrementi di produttività associati all’adozione di questo modello nell’ordine del 10%, senza parlare dei minori costi per gli immobili (tra il 30 e il 50%) e della riduzione della «pressione antropica sui centri delle grandi città in termini di traffico e pendolarismo».
Su questi stessi temi, proprio a ottobre 2021, il ministro Brunetta aveva promesso studi per risolvere la controversia. Tali analisi però non hanno ancora visto la luce.
Quella di Brunetta è solo una linea di coerenza
Viene quindi da chiedersi se non ci sia piuttosto una volontà di mantenere una linea di coerenza. Con anni di dichiarazioni forti, quasi sprezzanti, il ministro Brunetta ha costruito la sua retorica (e reputazione) di «riformatore» sulla necessità del pugno duro con i fannulloni e nella mentalità comunque, allo stato attuale delle cose, il lavoro da casa viene erroneamente associato a questa concezione di inattività.
La realtà probabilmente è che la vera risposta sarebbe una riforma. Un piano che, come tempo fa dichiarava anche il Sole24ore, sarebbe però da improntare come «un nuovo modello manageriale in una cornice normativa rinnovata».
Non c’è però la volontà di muovere il passo decisivo nell’innovazione di questo settore, tradizionalista e refrattario alle novità per definizione, ma anche affossato dall’assenza di reattività dei vertici.
Al momento in sintesi sembra che non si verrà a patti con un cambiamento come questo neppure in nome della minaccia del Coronavirus. Lo status quo amministrativo sembra continuare ad avere la meglio.
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