Cos’è il Patto di stabilità e perché l’Italia potrebbe mettere il veto alla ratifica delle modifiche: dopo la sospensione causa Covid, nel 2024 torneranno in auge i vincoli comunitari che il nostro Paese al momento non riuscirebbe a rispettare.
Che cos’è il Patto di stabilità? Una domanda questa che in molti si staranno facendo visto l’ennesimo scontro in atto a Bruxelles, con l’Italia pronta a salire sull’Aventino e ad apporre il veto alla ratifica delle modifiche elaborate dalla Commissione.
Il Patto di stabilità è uno dei pilastri su cui si regge l’Unione europea e serve ad armonizzare le politiche di bilancio pubblico perseguite dai Paesi membri. Lo scopo è quello di garantire la stabilità economica interna e si basa su due parametri fondamentali: il deficit dei singoli Stati contraenti e il rapporto debito pubblico e Pil.
Chi non rispetta i vincoli concordati rischia una pesante procedura d’infrazione che si traduce dapprima in una raccomandazione e poi in una sanzione vera e propria. A causa del Covid è stato sospeso fino al 31 dicembre 2023 e nel 2024 tornerà a essere in vigore.
Visto il mutato quadro economico continentale, con lo scoppio della guerra in Ucraina che ha minato la ripresa post-Covid, l’Unione europea è pronta ad apportare delle modifiche al Patto di stabilità. Per Giorgia Meloni però le condizioni elaborate da Bruxelles resterebbero troppo stringenti e proibitive per l’Italia minacciando il possibile ricorso al veto.
Cos’è il Patto di stabilità e crescita
Nel gergo comune viene chiamato “Patto di stabilità” ma, in realtà, si tratta dello “Stability and Growth Pact” (quindi patto di stabilità e crescita) con il quale l’Unione europea richiede ai Paesi membri il rispetto di alcuni parametri di bilancio.
Nel dettaglio, il Patto di stabilità consiste nel rispetto delle seguenti soglie:
- il rapporto deficit e Pil non deve superare il 3%
- il rapporto debito pubblico e Pil non deve superare il 60%
Stando alle parole della Commissione europea, i parametri previsti nel Patto di stabilità “mirano a evitare che le politiche di bilancio vadano in direzioni potenzialmente problematiche” e a “correggere disavanzi di bilancio o livelli del debito pubblico eccessivi”.
Quando e perché è nato il Patto di stabilità
Il Patto di stabilità e crescita è stato stilato e sottoscritto dai Paesi membri dell’Unione europea nel 1997, modificato in prima battuta con una risoluzione e poi con due successivi Regolamenti europei - ritoccati nel 2005 - del Consiglio europeo.
Alla base di questo accordo c’era - e c’è tutt’ora - l’intento di controllare le politiche di bilancio pubbliche e mantenere fermi i requisiti di adesione all’Unione economica e monetaria europea, e quindi rafforzare il percorso di integrazione monetaria che ha avuto il via con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht nel 1992.
La procedura d’infrazione
Gli Stati membri che non soddisfano i parametri previsti dal Patto di stabilità (rapporto deficit/Pil < 3% e rapporto debito/Pil < 60%) possono subire la procedura d’infrazione prevista all’articolo 104 del Trattato che consta in tre fasi:
- avvertimento;
- raccomandazione;
- sanzione.
Qualora il disavanzo di un Paese membro si avvicinasse al tetto del 3% del Pil, la Commissione europea propone - su approvazione del Consiglio dei ministri europei in sede di Ecofin - l’avvertimento preventivo (early warning) al quale segue una raccomandazione vera e propria se tale soglia viene superata.
Se nonostante la raccomandazione il Paese in questione non adotta misure correttive idonee a modificare la propria politica di bilancio, può essere sottoposto a una sanzione che prende la forma di un deposito infruttifero; questo può essere convertito in una ammenda trascorsi 2 anni di persistenza del deficit eccessivo.
La sanzione ha una componente fissa (pari allo 0,2% del Pil) e una variabile (pari ad 1/10 dello scostamento del disavanzo pubblico dalla soglia del 3%) il cui importo complessivo non può comunque superare il tetto massimo dello 0,5% del Pil.
Al contrario, se lo Stato membro adotta tempestivamente le misure correttive, la procedura d’infrazione è sospesa fino a quando il deficit non viene portato sotto il limite del 3%.
Le modifiche e la posizione dell’Italia
Dopo essere stato sospeso per tre anni a causa della pandemia, nel 2024 il Patto di stabilità tornerà a essere in vigore e, se così fosse, l’Italia non riuscirebbe a rispettare i parametri soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra deficit e Pil: al momento siamo oltre il 140%, ben lontani dal tetto massimo del 60%.
L’Italia però sarebbe in buona compagnia visto che sarebbero ben tredici gli Stati membri a sforare questo parametro, con solo la Grecia però che starebbe messa peggio di noi. Ad aprile 2023 la commissione europea ha elaborato delle modifiche al Patto di stabilità che adesso però devono essere ratificate.
I due limiti del 3% (rapporto deficit-Pil) e 60% (rapporto debito pubblico-Pil) resterebbero invariati, ma verrebbero introdotti al tempo stesso dei correttivi per quanto riguarda i piani di rientro. In audizione alla commissione Bilancio di Camera e Senato, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha illustrato quali sarebbero le modifiche che verrebbero apportate al Patto di stabilità.
- Il nuovo schema prevede un indicatore operativo unico, la spesa primaria netta, che esclude i pagamenti per interessi e la componente della spesa primaria sensibile al ciclo economico (quale quella legata ai sussidi di disoccupazione) ed è calcolata al netto delle variazioni discrezionali dal lato delle entrate.
- L’andamento dell’aggregato di spesa nell’arco temporale della programmazione di bilancio è definito in modo da assicurare che il rapporto debito/PIL si riduca in maniera “sostenibile”, o che rimanga su livelli prudenti, e, inoltre, che il disavanzo sia inferiore al limite del 3%.
- La sostenibilità del debito è valutata in base alla metodologia della DSA – Debt Sustainability Analysis – adottata da tempo dall’UE per i rapporti sulla sostenibilità del debito (Debt Sustainability Monitor) e ai fini della sorveglianza fiscale.
- Tramite la DSA la Commissione propone, all’inizio di ogni ciclo di pianificazione e per i Paesi che superano i limiti stabiliti nel Trattato, una traiettoria tecnica che funga da base per la definizione dei percorsi di spesa netta alla base della programmazione pluriennale di bilancio.
- I Piani avranno una durata di 4 o 5 anni a seconda della durata naturale della legislatura. Nel caso dell’Italia, il Piano avrà una durata di 5 anni. Il Piano, proposto dallo Stato membro, valutato positivamente dalla Commissione e approvato dal Consiglio Ecofin, definisce l’azione di politica fiscale degli Stati membri per gli anni della sua durata. I Piani contengono, quindi, un profilo di aggiustamento fiscale, della durata minima di 4 anni, che ciascuno Stato definisce e concorda con la Commissione, per poi essere successivamente approvati dal Consiglio.
- Il percorso di aggiustamento definito nei Piani potrà essere più graduale e prolungato nel tempo se accompagnato da un impegno dello Stato membro a realizzare investimenti e riforme ambiziosi, che contribuiscano a innalzare la crescita potenziale e migliorare la sostenibilità del debito pubblico. In questo caso la durata del periodo di aggiustamento può essere estesa fino a 7 anni.
- La proposta definisce due clausole di salvaguardia (escape clauses), una nazionale e una europea, che permetterebbero di deviare dal percorso di spesa concordato, per un tempo predeterminato, ma rinnovabile, attivabili in caso, rispettivamente, di circostanze eccezionali con un profondo impatto sulle finanze pubbliche di uno Stato europeo (clausola nazionale) e di grave recessione economica nell’Unione (clausola europea).
- Quanto al “braccio correttivo” del Patto, la proposta legislativa non modifica la Procedura per Disavanzi Eccessivi nel caso di superamento del limite del 3% del deficit in rapporto al PIL. Viene invece rafforzata la Procedura per mancata riduzione del rapporto debito/PIL, che viene attivata in caso di deviazione rispetto al sentiero di spesa concordato nel Piano, registrato sulla base dei dati consolidati dell’anno precedente.
Modifiche queste che non piacciono a Giorgia Meloni - l’Italia non riuscirebbe comunque a rispettare le nuove regole - tanto che la premier non ha escluso il ricorso al veto: “Credo si debba fare una valutazione su ciò che è meglio per l’Italia sapendo che se non si trova un accordo, noi torniamo ai precedenti parametri. Io farò tutto quello che posso”.
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