Perché i bassi tassi d’interesse non spiegano il rally dell’azionario

Pierandrea Ferrari

01/01/2021

I mercati azionari continuano nella loro corsa, ma i tassi d’interesse al minimo non sono sufficienti per spiegare il rally dei titoli sulle piazze finanziarie.

Perché i bassi tassi d’interesse non spiegano il rally dell’azionario

I mercati azionari sono usciti pressoché indenni dalla tormenta pandemica che ha scosso l’economia reale negli ultimi dodici mesi: senza dubbio, le iniezioni di liquidità garantite dai Qe anti-Covid e la politica “dovish” sui tassi d’interesse delle principali banche centrali hanno contribuito a rafforzare la fiducia delle piazze finanziarie.

Negli ambienti borsistici, da tempo, si fa riferimento proprio agli interessi ai minimi per giustificare l’attuale valutazione dei titoli azionari, quest’ultimi – grazie anche al progressivo abbandono del mercato obbligazionario da parte degli investitori – ormai intrappolati in una spirale di crescita che sta prolungando la più che decennale stagione del toro.

Tuttavia, secondo gli analisti, quella dei “bull” è solo un’illusione, poiché i tassi d’interesse che rasentano quota zero non sono sufficienti a giustificare la bontà dei movimenti rialzisti registrati sulle piazze finanziarie negli ultimi mesi. Al contrario, le quotazioni odierne vengono nutrite da un pericoloso – e incontrollabile – crescendo d’entusiasmo, che potrebbe essere smorzato in assenza di fondamentali solidi che lo sostengano.

La sopravvalutazione dei titoli mette a rischio la stabilità del mercato

Il rischio, in breve, è che il mercato stia semplicemente sopravvalutando i titoli azionari. Un sospetto, questo, che da tempo aleggiava nei salotti finanziari, ma l’ulteriore sprint delle azioni nel mese di dicembre ha ingrossato ulteriormente le fila degli scettici.

Una controprova, secondo gli analisti, può essere ottenuta calcolando R al quadrato – ovvero il coefficiente di determinazione – in due modi: prima focalizzandosi su uno specifico indicatore, poi includendo anche i tassi d’interesse.

Ad esempio, l’R al quadrato dell’indicatore Buffet – che sintetizza il rapporto tra la capitalizzazione totale del mercato statunitense e il Pil – è al 47% quando si tratta di predire il ritorno totale aggiustato all’inflazione dell’indice S&P500. Ma, quando nell’equazione vengono introdotti propriamente anche i tassi d’interesse correnti, il risultato di R al quadrato rimane sostanzialmente invariato.

C’è di più: in un modello econometrico che include l’indicatore Buffet e gli interessi reali, i bassi tassi sono generalmente associati a ritorni a 10 anni più contenuti. Ad esempio, nel momento in cui viene introdotto l’indicatore Buffet nel modello, il ritorno a 10 anni aggiustato all’inflazione dell’indice S&P500 si muove in territorio negativo del 9,3% su base annua, ma la percentuale scende addirittura a -10,4% se si tiene conto dei tassi d’interesse.

In sostanza, gli investitori rialzisti stanno confondendo due tendenze storicamente distinte: quello che succede alla valutazione del mercato quando i tassi d’interesse registrano una contrazione e l’effetto sui ritorni futuri di un regime di interessi ai minimi. In tal senso, è indubbio che la quotazione dei titoli benefici di tassi d’interesse bassi, ma ciò è completamente slegato da quello che succede negli anni che seguono le politiche “dovish” sui tassi.

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