Dopo l’euforia da Qe pandemico, la crisi ucraina ha resettato la realtà. Mosca ha mostrato i limiti dei super-poteri delle Banche centrali: chi avrà il coraggio di attivare la clausola di default?
Possiamo raccontarci la realtà che vogliamo ma quanto accaduto in rapida successione nelle ultime 24 ore dimostra come la vulgata della Russia isolata e con armi diplomatiche sempre più spuntate sia poco più che un auspicio spacciato per certezza. Primo, al netto delle continue richieste del presidente Zelensky di una no-fly zone sull’Ucraina o, in subordine, della fornitura diretta di velivoli da caccia, la Polonia ha non solo detto no ma addirittura scomodato il suo vice-ministro degli Esteri, Szymon Szynkowski, per sottolineare come manchino del tutto le basi giuridiche per attivare uno status che comporterebbe azioni dirette al di fuori dei propri confini.
Il motivo? A Varsavia devono aver letto il Washington Post, il quale nella sua edizione di domenica raccontava un retroscena relativo a un contingecy plan già pronto negli Usa in caso di rapimento o uccisione proprio del presidente Zelensky. Alla base, l’instaurazione di un governo ucraino in esilio con pieni poteri. In Polonia. Praticamente, il corrispettivo di inquadrare il Paese nel mirino della Russia. Secondo, la Germania ha mostrato palesemente quale sia il grado di bluff messo in campo dall’Europa finora. Non appena la minaccia statunitense di bloccare l’import di greggio dalla Russia e approntare un embargo su larga scala ha spedito il prezzo del barile a 139 dollari e quello del gas a qualcosa come 310 euro per megawatt/ora, Berlino ha stoppato il pressing in atto in sede Ue e reso noto che non intende aderire a una simile escalation sanzionatoria.
Insomma, finché si tratta di inserire sette banche nella lista nera di SWIFT (guardandosi bene dall’inserire Gazprombank) va bene ma ora il rischio di un tracollo del Pil si fa davvero concreto, stante quelle valutazioni delle commodities energetiche e l’inesistenza di una reale e credibile alternativa di approvvigionamento. Quindi, tutti fermi. Terzo, per quanto le decisione di Vladimir Putin di firmare il decreto che impone il pagamento del debito estero in rubli abbia spedito i credit default swaps russi alle stelle e riempito le pagine dei media di previsioni per un altro 1998 alle porte, la dura realtà è che questa mattina in apertura di contrattazioni le Borse europee erano letteralmente crollate. Milano addirittura in area di -6%. Cosa le ha risollevate? Forse una presa d’atto o una decisione di Ue, Usa o Nato? No, solo la prezzatura crescente di una tregua che sarebbe scaturita dai colloqui di oggi in Bielorussia.
Tradotto, al netto di rublo crollato e Borsa forzatamente chiuso, Mosca è market-maker. E appare quantomeno improbabile, almeno nell’immediato, che qualcuno abbia il coraggio di attivare per primo e senza remore le clausole di default selettivo da qui al 16 marzo, quando andranno a maturazione bond e coupon per parecchi miliardi di controvalore, sia in dollari che in rubli.
Soprattutto dopo i no di Polonia e Germania alle uniche due variabile davvero efficaci - ma anche senza ritorno - di implementazione delle sanzioni.
Piaccia o meno, insomma. Mosca ha attivato il vero taper dopo due anni di festa pressoché continua da Qe pandemico. In realtà, dopo dodici anni di quantitative easing strutturale che ha manipolato ogni premio di rischio, ogni principio di fair value e ogni tentativo di price discovery. Perché per quanto il mercato futures delle commodities sia finanziarizzato e quindi ostaggio della speculazione, alla fine il gas che ci permette di scaldarci, cucinare, accendere la luce o il petrolio o il nickel o il grano non possono essere stampati con un click simbolico di un banchiere centrale. Quando scarseggiano, il prezzo sale. E, come nel caso attuale, esplode letteralmente.
E il gas come l’olio di semi di soia o di girasole sono carne e sangue di quella economia reale che è rimasta giocoforza esclusa dal gran ballo del Qe, se non - nei casi delle corporation più grandi - beneficiando o di acquisti diretti di corporate bonds da parte delle Banche centrali o di tassi ultra-bassi per finanziarsi sul mercato. Facendo proliferare le zombie firms che ora creperanno come mosche, rischiando di inviare shock sistemici sul mercato. La crisi non è risolvibile con la politica monetaria. Non a caso, nessuno sta riponendo la benché minima aspettativa o speranza di approccio risolutivo alla situazione nel board della Bce che comincia mercoledì. Impotenza totale. L’unica certezza è che non si alzeranno i tassi. E che il Pepp probabilmente proseguirà anche dopo il 31 marzo. Ma l’inflazione morde. E continuerà a farlo, se chi gestisce il rubinetto o la mietitrice globali vorrà mettere in corner i suoi avversari e il mercato. Se invece ci sentiamo confortati dal negare la realtà, allora proseguiamo con la politica del contrabbandare gli auspici con i fatti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA