In questo secondo ventennio dobbiamo aspirare a curare le persone e non più le malattie. Percorso possibile grazie alla medicina partecipativa e alla formazione di una nuova generazione di pazienti e medici. L’obiettivo da qui al 2025 è invecchiare bene e ottimizzare i costi per la salute.
2025: Quando il vero obiettivo non sarà più curare le malattie ma offrire un sano invecchiamento
Sono sotto gli occhi di tutti i benefici che le biotecnologie e il progresso scientifico nel campo medico hanno offerto nei primi 20 anni di questo millennio. Oggi iniziamo ad utilizzare le piattaforme di telesalute, cominciamo a parlare di medicina personalizzata, multicanale e partecipativa, utilizziamo armi bioterapeutiche personalizzate come gli anticorpi monoclonali o le Car-T, si intravedono le prime applicazioni per la medicina rigenerativa e progressivamente ci stiamo spostando dal concetto di luoghi della salute al concetto di cura della persona. Aspiriamo dunque nel secondo ventennio di questo secolo a curare non più le malattie ma le persone, consci della diversità del singolo individuo. Non a caso infatti una gran parte della medicina si è fortemente sviluppata in senso genotipico, ponendo la sua attenzione verso il nostro codice genetico, piuttosto che sui caratteri fenotipici legati ai sintomi ed evidenti soprattutto nelle fasi finali del processo patologico. In poche parole la prossima missione è predire l’insorgenza della malattia piuttosto che curarla. E la differenza è sostanziale!
Prevenire è meglio che curare?
Può apparire strano che oggi si torni a parlare di prevenzione, sottolineandone l’importanza rispetto alla cura delle patologie, ma in realtà il dibattito scientifico su questo punto è molto acceso. Sembrava un concetto sostanzialmente scontato, ma quando negli scorsi 3 anni si è fatto il punto della situazione riguardo la mortalità, l’allungamento dell’aspettativa di vita, la qualità degli ultimi anni di vita e soprattutto dei costi per ottenere tutto ciò, i risultati sono apparsi ben lontani da quelli attesi.
Un punto certamente positivo è quello anagrafico. Oggi viviamo di più, se si pensa che l’aspettativa di vita alla nascita in Italia nel 1960 era di 70 anni contro gli 80 anni attuali, ossia abbiamo guadagnato ben 10 anni di vita in soli 60 anni. Per questo risultato bisogna certamente chiamare in causa fattori socio-economici e culturali (si pensi ad esempio all’impatto del calo dei fumatori) ma decisivo è senza dubbio stato il contributo della ricerca scientifica e delle soluzioni terapeutiche che il settore farmaceutico è riuscito costantemente ad offrire negli anni. La prima nota stonata arriva invece dalla prevenzione secondaria, quella diagnostica, che è stata messa in pista negli ultimi 20 anni e, di sicuro, ha portato innumerevoli benefici soprattutto in campo oncologico salvando milioni di vite ma alla fine, dal punto di vista dei costi, non si è rivelata spesso sostenibile così come emerso dalle numerose indagini di budget impact delle aziende socio-sanitarie. In parole povere il poter offrire uno screening diagnostico serio a tutti, per evitare l’insorgenza delle patologie, con la tecnologia attuale, non risulta un modello costo-efficace e sostenibile nel tempo.
L’altra nota fuori posto è saltata fuori quando si è voluta analizzare la qualità di vita di questi 10 anni guadagnati da ognuno di noi; ebbene è emerso che molto spesso sono anni passati in sofferenza, afflitti da patologie fortemente cronicizzate, senza parlare dell’impatto dei costi sul SSN che ognuno di noi determina negli ultimi anni di vita. Se volessimo quindi riassumere il tutto abbiamo allungato la vita delle persone, con costi a volte non sostenibili dal sistema, per regalare loro i peggiori ultimi anni della loro esistenza. Non un grande successo dunque.
Obiettivo: invecchiare bene – (Primo: tum age)
Emerge dunque un nuovo obiettivo, quello di offrire un sano invecchiamento alle persone. Il guadagno in termini quantitativi senza contemporaneamente mirare alla qualità appare veramente insensato e soprattutto non sostenibile. Nasce quindi un nuovo hard end-point che dovrà, certamente, essere inserito nei futuri disegni di studi clinici, quello che misura la qualità di vita. Da questo punto di vista la tecnologia e la sua integrazione nella medicina saranno fondamentali. Oggi si comincia a parlare di terapie digitali, di piattaforme e device per il monitoraggio dei dati salute e soprattutto di intelligenza artificiale applicata alla prevenzione. Saranno queste, a mio avviso, le 3 armi che cambieranno lo scenario e che potrebbero essere in grado di aumentare quantità e qualità degli output clinici. Naturalmente tutto ciò applicato in un’ottica di approccio personalizzato alla cura della persona.
Quali sono le sfide nell’immediato?
La prima e forse la più importante è quella del passaggio verso la medicina partecipativa. Senza la collaborazione attiva del paziente e dei caregiver nel processo di cura, l’aderenza terapeutica dei pazienti continuerà ad essere, come oggi, fallimentare. Il medico deve divenire un coach, assicurando una presenza e una sorveglianza costante, ma i risultati li deve raggiungere il paziente divenendo il vero protagonista della sua performance terapeutica. Abbiamo dunque bisogno di una nuova generazione di pazienti.
La seconda è quella che vede trasformarsi i medici. Chi non saprà utilizzare la telesalute, le terapie digitali e l’intelligenza artificiale diverrà immancabilmente obsoleto e soprattutto inadeguato a partecipare ad un sistema salute basato sui dati, sulla loro corretta interpretazione e soprattutto sul loro potere predittivo. Pertanto è importante ridisegnare i percorsi universitari di Laurea e erogare il giusto training agli operatori sanitari.
La terza ed importante priorità è quella degli incentivi basati sui risultati. Il SSN dovrà per forza di cose migliorarsi premiando gli esempi e i modelli virtuosi e censurando quelli che consumano tante risorse. Non basterà più assicurarsi il successo diagnostico e la corretta prescrizione terapeutica, così come normalmente avviene oggi; perché il sistema ne tragga beneficio sarà anche importante il successo in termini di qualità di vita e sostenibilità economica.
Il Post-COVID
La lezione del COVID rimarrà negli albi della medicina ed è destinata a segnare uno dei gradini della sua storia; così come oggi distinguiamo un’era pre-antibiotica da quella successiva all’introduzione di questi farmaci, domani i nostri figli parleranno dell’era pre-pandemica e di ciò che è avvenuto dopo. Grandi scoperte ci attendono nel campo della genetica, del microbioma, del sistema immunitario; modulando queste 3 variabili riceveremo molte risposte alle domande che fino ad ora non hanno avuto risposta. Il COVID ci insegnerà a pensare in maniera collettiva utilizzando i dati, cosa che fino ad ora non è avvenuta nel campo della salute. Anche le capacità di calcolo, sempre più elevate, e l’introduzione dei computer quantici apriranno la strada alla medicina basata sui Big Data certamente molto più efficace di quella attuale basata sull’evidenza scientifica ma ottenuta nel mondo degli studi clinici, in un mondo non reale.
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