L’Italia, in termini di sovranità tecnologica, continua a pagare un doppio gap nei confronti dei partner europei e dei competitor internazionali. Dove si annidano le origini di questo pesante ritardo? E quali sono gli strumenti a cui deve attingere per cambiare rotta? Ne abbiamo parlato con Rosario Cerra, presidente e fondatore del Centro Economia Digitale e del Gruppo I CAPITAL.
L’Italia e la sovranità tecnologica, una storia complicata. E ancora tutta da scrivere. Quella che si intende comunemente come l’abilità di generare conoscenza scientifica e tecnologica in autonomia o di utilizzare capacità tecnologiche sviluppate altrove attraverso l’attivazione di partnership ritenute affidabili, e che oggi rappresenta un driver di primo ordine per l’indipendenza economica, vede ancora il Belpaese al di sotto della media europea e a distanza siderale dai grandi player dell’innovazione e della sperimentazione, come Cina e Stati Uniti.
Insomma, quello accumulato è a tutti gli effetti un doppio gap, e le radici sono profonde. Ma la caccia a questa forma di sovranità, che nel mondo globalizzato e interconnesso di oggi non si intende con l’accento tipico del sovranismo politico, bensì come capacità di sviluppare una dipendenza contenuta in termini di tecnologie fondamentali, contemperando efficienza e indipendenza, non è di quelle a cui si può abdicare. Questa consapevolezza, di base, è anche uno dei lasciti della stagione pandemica, che ha rilanciato l’importanza delle infrastrutture tecnologiche e digitali nel quadro del rafforzamento delle capacità decisionali e di azione. In altre parole, dell’autonomia strategica.
In tal senso, servirà guardarsi indietro e poi muoversi in avanti, prima la diagnosi e poi la cura. Individuare quindi i fattori che hanno allontanato il paese dagli altri Stati UE e dai competitor internazionali, e calibrare così gli investimenti per ridare smalto al sistema Italia. Di questo, per l’esattezza, abbiamo parlato con Rosario Cerra, presidente e fondatore del Centro Economia Digitale e del Gruppo I CAPITAL, che si occupa prevalentemente di strategie per le organizzazioni complesse, dai più importanti gruppi industriali internazionali alle organizzazioni private e pubbliche di primo piano.
L’Italia e la sovranità tecnologica: le origini del ritardo
Le origini, dunque. Secondo Cerra, che a fine marzo ha presentato, insieme al direttore ricerche e al membro del comitato scientifico del Centro Economia Digitale, Francesco Crespi e Paolo Boccardelli, un Position Paper sulla sovranità tecnologica (allegato sul fondo dell’articolo), i fattori critici dietro il ritardo dell’Italia sono due.
In primo luogo «i bassi investimenti in Ricerca e Sviluppo e alta tecnologia», osserva Cerra, ricordando come «1 euro investito nei settori ad alta tecnologia genera un effetto moltiplicatore pari a 2,4 euro nel resto dell’economia». Settori che esercitano di fatto un ruolo limitato in Italia, sia in rapporto al potenziale del paese che in relazione ai livelli dei player OCSE.
Il sistema Italia sconta poi «l’assenza di una chiara strategia di politica industriale», aggiunge Cerra, puntando il dito contro la debolezza brevettuale e la limitata capacità innovativa nei settori strategici e nelle tecnologie emergenti che ne è derivata. Dinamiche che hanno contribuito a fare dell’Italia un paese a competenze più orizzontali e diffuse rispetto a quelle di altri partner e competitor, che lungi dall’essere un segnale positivo, rilevano piuttosto una accentuata de-specializzazione in ambito tecnologico e digitale.
Nuovi investimenti per colmare il gap
La via maestra, ora, è investire. E questo vale tanto per l’Italia, sotto la media continentale, quanto per l’Europa, schiacciata nella morsa degli Stati Uniti e della Cina. Su questa linea Cerra:
«Occorre sfruttare tutte le risorse disponibili a livello nazionale ed europeo per investimenti di frontiera in settori decisivi come, tra gli altri, il calcolo ad altre prestazioni (high-performance computing), la cybersecurity, l’intelligenza artificiale e l’Internet of Things».
Ma l’elenco delle debolezze strutturali dell’Italia, e anche dell’Europa, è ben più lungo, e arriva fino al 5G, all’edge computing e allo sviluppo dei vaccini per il Covid-19. Questa infatti la risultante di una recente analisi brevettuale effettuata dal Centro Economia Digitale, che evidenzia, per il paese e l’UE, la necessità di concentrare gli sforzi sui settori ritenuti prioritari «con politiche industriali e scientifiche mirate e continuative», afferma Cerra.
In questo quadro saranno indubbiamente fondamentali le risorse europee del Recovery Fund e, dunque, la messa a punto del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), vincolante per sbloccare le prime tranche da Bruxelles, previste per luglio. In tal senso, Cerra osserva:
«È importante che all’interno del Pnrr vengano destinate risorse sufficienti allo sviluppo delle tecnologie, tra cui possiamo segnalare edge, cloud, 5G e Open RAN, che sono ormai riconosciute come tecnologie cruciali per lo sviluppo del paese. In questa prospettiva, lo sviluppo di una filiera nazionale di tecnologie di rete innovative permetterebbe all’Italia di sviluppare in autonomia partnership locali con imprese campioni del settore del Made in Italy, un asset decisivo in chiave di competitività paese».
Senza dimenticare che con la fuoriuscita del Regno Unito dall’UE si è aperta di fatto una opportunità per l’Italia, seppure a danno dell’ecosistema innovativo europeo. Il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, ha già rilanciato l’ambizione di formare un asse a tre con Germania e Francia, le prime due economie dell’Eurozona, in ambito digitale, energetico e militare. Una interazione «fondamentale» secondo Cerra, viste le logiche coopetitive dell’Unione europea.
Germania e Francia a cui dobbiamo oltretutto le iniziative europee volte a costruire una infrastruttura di dati e cloud per rafforzare la sovranità dei dati nel continente, nell’arco di una più ampia presa di coscienza sulla marginalità dei player UE nel mercato del cloud e dell’archiviazione dati. Un esempio da seguire, secondo Cerra, è il progetto sul cloud europeo Gaia-X, che si propone di sviluppare requisiti comuni per un’infrastruttura di dati federata e che vede già un’ampia partecipazione di aziende italiane.
L’Europa e le catene del valore strategiche
Osservazioni, quest’ultime, che ci portano ad approfondire il capitolo europeo, lì dove si annida il secondo gap accumulato dall’Italia. I 27 Stati membri, infatti, si tengono ancora a debita distanza da Cina e Stati Uniti, che hanno fatto dell’innovazione e della sperimentazione dei cardini della loro strategia a lungo termine. Rileva Cerra:
“L’Europa sta comprendendo, anche dalla dura lezione della pandemia, che non può più limitarsi a evidenziare la necessità di raggiungere una propria maggiore autonomia sulla scena globale, ma deve arrivare a definire con maggiore chiarezza il perimetro della discussione e i risultati che si devono raggiungere per proteggere efficacemente i propri interessi e, soprattutto, i propri valori”.
Dal 2019, ovvero da quando la Commissione europea ha posto la questione della sovranità tecnologica come una delle priorità del continente per i successivi cinque anni, alcuni passi avanti ci sono stati. Bruxelles ha infatti lanciato delle iniziative per supportare catene del valore come quella delle batterie, del calcolo ad alte prestazioni e della microelettronica. Ma non basta.
Per Cerra, infatti, questi interventi “devono essere rafforzati ed estesi ad altre catene del valore di importanza strategica”, con piani di azione per combinare misure efficaci sulle materie prime, sulla ricerca e l’innovazione, sulla regolamentazione e sul commercio e lo sviluppo delle competenze.
In questo quadro, sono diversi gli strumenti a disposizione: tra questi gli IPCEI (Important Projects of Common European Interest) previsti dalle norme sugli aiuti di Stato e che, secondo Cerra, “possono essere utilizzati per rafforzare la competitività delle catene del valore strategiche quando si tratta di tecnologie innovative”, o anche i finanziamenti alternativi della Banca europea per gli investimenti (BEI) e di altri programmi UE a gestione centralizzata.
Più in generale, osserva Cerra, l’ambizione dell’Europa deve essere quella di realizzare un accordo strategico con le altre democrazie occidentali, in primis gli Stati Uniti, per creare un digital market che si affermi come veicolo non solo di servizi e prodotti, ma anche e soprattutto di valori liberali. Una spinta che potrebbe portare la Cina, ormai primo partner commerciale di Bruxelles dopo la firma del super accordo sugli investimenti, verso un impegno cooperativo.
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