SEB AB e Commerzbank guidano il fronte delle banche pronte a inserire il warfare nei fondi sostenibili. E a Bruxelles, la lobby bellica «spinge» per un ampliamento in tal senso della social taxonomy
La guerra è bella anche se fa male, canta Francesco De Gregori in Generale. Canzone che devono aver ascoltato parecchio negli ultimi giorni dalle parti di Bruxelles, poiché i soliti rumors dei bene informati fanno trapelare come alcuni funzionari comincino a cedere alle lusinghe sempre più pressanti dei lobbysti dell’industria bellica. Finalità? La paradossale inclusione dei titoli del comparto difesa, il caro vecchio warfare che sta spopolando nel nuovo pacchetto di sostegno voluto da Joe Biden in risposta alla crisi ucraina, nella cosiddetta social taxonomy, ovvero la classificazione di sostenibilità che rappresenta l’antefatto all’ottenimento tout court della certificazione ESG.
Esatto, quella green. La quale, non contenta di essere più nota per la distorsione fraudolenta del greenwashing che per i risultati concreti offerti a livello di sostenibilità, parrebbe ormai pronta allo sfondamento a spinta della porta del ridicolo, includendo razzi, droni e caccia nel novero degli assets che garantiscono democrazia, governance etica e diritti al mondo. In effetti, una volta sdoganato l’ossimoro della guerra umanitaria con l’intervento Nato in Kosovo, tutto è stato possibile. E oggi, sia in Europa che negli Usa, il dibattito che lacera il fronte dei cosiddetti pacifisti fa riferimento proprio al tasso di eticità insito nel fornire armi a una nazione che sta resistendo a un’invasione di Stato terzo.
Insomma, il varco perfetto per lobbysti dalla parlantina facile e della capacità persuasiva a prova di bomba (appunto): cosa c’è di più ESG e legato alla cronaca stringente - quindi, in grado di catturare interesse (e capitale) immediato nel pubblico degli investitori sull’onda dell’emozione mediatica - che scegliere un fondo al cui interno si trovano azioni di aziende che garantiscono al popolo ucraino di combattere l’aggressore? Sottile. Ipocrita. Al limite del faustiano.
Ma terribilmente ormai realistico. tanto che SEB AB, una delle principali banche della neutrale Svezia e antesignana assoluta nel campo dei green bonds, ha recentemente riclassificato gli armamenti come strumenti per preservare la democrazia, contemplandoli quindi come inseribili fra gli investimenti sostenibili. E stante il clamoroso stanziamento per la difesa appena approvato dal governo Scholz (oltre 100 miliardi di euro), anche Commerzbank AG ha rotto gli indugi e aperto le proprie porte ai costruttori di armamenti. Gli stessi che a inizio anno avevano reso note le proprie difficoltà nell’ottenere finanziamenti dal mercato: prima la manna della crisi ucraina e ora addirittura l’ipotesi dell’inclusione nel comparto ESG, praticamente Natale due volte.
Anche perché, ovviamente, il mercato si comporta come tale e prezza in anticipo gli sviluppi potenziali. Quindi, se da Bruxelles piovono per ora unicamente no comment o smentite poco credibili, i titoli di aziende come Lockheed Martin e Saab AB stanno già segnando aumenti record. E che dire ad esempio del contractor della difesa Usa per antonomasia, quella Raytheon che fornisce ai sauditi per i loro stermini di civili in Yemen? Se il ramo operativo europeo dovesse garantirsi il bollino etico ESG, quale sarebbe il livello di precipizio della credibilità di quest’ultimo?
E attenzione, perché Bloomberg scrive chiaramente come già oggi alcuni titoli di aziende del comparto armamenti e difesa siano presenti in fondi dichiaratamente ESG. Chi ha investito, lo sa? E, soprattutto, è d’accordo? O forse la migliore assicurazione contro il rischio di redemption etica di massa è il bombardamento emozionale in atto sui media? Qualche piccolo conflitto di interesse incrociato in atto?
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