L’indice ISM americano si è attestato a 49,10 punti, varcando la soglia che delimita le fasi di crescita e quelle di contrazione dell’economia per la prima volta dal 2016
Nella mente degli investitori americani si fa sempre più largo l’idea di una recessione o quantomeno un rallentamento economico.
I segnali preoccupano anche Wall Street che zavorrata dall’inaspettata caduta dell’indice ISM sulle aspettative dei direttori degli acquisti delle aziende, ieri sera ha chiuso con un ampio ribasso: l’indice S&P 500 ha segnato un calo del -0,7% mentre il Dow Jones Industrial ha fatto anche peggio con un -1,1%.
L’indice ISM americano si è attestato a 49,10 punti, varcando la soglia che delimita le fasi di crescita e quelle di contrazione dell’economia per la prima volta dal 2016. È oramai un dato di fatto che tutti gli indicatori di confidence aziendale delle principali economie mondiali sono scesi al di sotto della soglia di espansione.
«È intuibile che questi cali sono da imputare principalmente alle ripercussioni sui traffici e sulla domanda derivante dalla guerra commerciale in atto. L’applicazione di tariffe sul commercio disincentiva per sua natura gli acquisti (rendendo le merci più care) e impatta direttamente la domanda», commentano da Zeygos Research & Consulting.
A pesare sul dato ISM di ieri è la forte contrazione della componente relativa ai nuovi ordinativi. Essa è scesa fino a 47,2 punti.
Non è riuscito a risollevare la valuta degli Stati Uniti l’intervento del governatore della Fed di Boston, Eric Rosengren, schierato su posizioni opposte a quelle di Jerome Powell, quindi uno dei falchi contrari alle politiche monetaria ultra espansive che vengono in continuazione richieste dalla Casa Bianca.
Rosengren ha ribadito che il quadro economico è confortante: in assenza di traumi dal fronte dei consumi, la crescita dovrebbe essere intorno al 2% nei prossimi anni.
In questo quadro il dollaro perde terreno nei confronti delle maggiori valute dell’area Asia Pacifico: lo won della Corea del Sud guadagna lo 0,5%, il ringgit della Malesia lo 0,2%, la rupia indiana lo 0,3%.
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