Avviare una causa in materia bancaria è plausibile ma prima bisogna averne chiari alcuni aspetti, partendo dal concetto stesso di anatocismo bancario e interessi. Vediamo insieme l’iter.
Quando si parla di anatocismo s’intende il calcolo degli interessi su quelli già maturati di una somma dovuta. Nello specifico, con la locuzione “anatocismo bancario” si vuole indicare una particolare operazione con la quale una banca calcola, su una somma di capitale di credito, determinati interessi maturati per poi andare a porre lo stesso quale base di un ulteriore calcolo degli interessi.
In questo modo gli interessi maturati vengono capitalizzati, ossia si traducono in capitale aggiuntivo all’importo dovuto, producendo a loro volta degli interessi aggiuntivi. Si tratta, in sostanza, di interessi composti, costituiti da interessi calcolati sul debito principale e successivi interessi maturati sullo stesso.
Ovviamente, ciò presuppone comunque un’obbligazione creditizia, precedentemente stipulata tra il richiedente (soggetto debitore) e il creditore (ossia la banca), con la quale si prevede l’erogazione di un finanziamento e il successivo rimborso dello stesso, generalmente rateizzato, al quale si applica un determinato tasso di interessi.
Ma analizziamo il divieto di anatocismo previsto dal nostro ordinamento e la tutela per le vittime di questo complesso sistema.
Linee guida per i procedimenti in materia bancaria
Il divieto di anatocismo bancario
È fondamentale chiarire che con la recente disciplina attinente alle operazioni bancarie, è fatto divieto di produrre interessi sugli interessi dovuti, salvo specifiche eccezioni. Accanto a ciò, il dm del 3 agosto 2018, ha altresì contemplato il divieto di anatocismo negli interessi, a eccezione di quelli moratori, in conformità a quanto già sancito dai principi generali della materia.
Quando parliamo di interessi di mora, infatti, intendiamo quelli previsti dal Codice civile nei casi in cui il cliente debitore risulti inadempiente alle proprie obbligazioni pecuniarie. Più nel dettaglio, quest’ultimi rappresentano una sorta di maggiorazione del costo del rimborso di un finanziamento in caso di un mancato pagamento delle rate, nel rispetto dei termini di rimborso sanciti dal contratto stipulato.
Essi nascono come tutela degli istituti di credito, e oggi sono utilizzati altresì quale fonte di segnalazione di un “cattivo pagatore” e dell’annesso credito non performante o di rischio. Per tale motivo, la loro natura appare completamente differente dai casi di anatocismo.
La differenza tra anatocismo e usura
Per evitare confusione tra le due realtà si può affermare che se l’anatocismo bancario può determinarsi come illecito, gli interessi usurai sono alla base di pratiche illegali, previste e disciplinate dall’art. 644 del Codice penale.
Con la locuzione “interessi usurai”, o tasso di usura, si intendono quegli interessi maggiori del tasso di soglia (stabilito dalla legge) applicati nella concessione di un credito.
Per schematizzare:
- per anatocismo bancario s’intende una pratica bancaria di ricalcolo illegittimo degli interessi sugli interessi;
- per usura s’intende l’applicazione di un interesse maggiorato fin da subito, spesso mosso da una posizione favorevole del concedente rispetto al richiedente in crisi.
La tutela stragiudiziale e la prescrizione
Appurato che si tratta concretamente di anatocismo, è necessario prendere le dovute tutele.
In primo luogo bisognerà raccogliere la documentazione che se non è in possesso del ricorrente allora bisognerà chiederla in banca ai sensi dell’articolo 119 del Testo Unico Bancario.
La banca a questo punto avrà l’obbligo di consegnarci la documentazione richiesta entro 90 giorni dalla richiesta ed è obbligata a consegnarci soltanto gli ultimi 10 anni dei documenti richiesti. Si consideri che tale produzione documentale ha dei costi che possono arrivare anche a qualche centinaio di euro. Una volta che si sono raccolti i documenti utili questi dovranno essere analizzati da un perito esperto nella materia.
Come si può agilmente comprendere, in caso di anatocismo bancario, così come per tutte le altre controversie di stampo bancario, l’ordinamento italiano ha sì previsto il ricorso alla via giudiziale ordinaria, ma solamente dopo il tentativo di risoluzione stragiudiziale che è una condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Vediamo insieme gli strumenti preventivi previsti dalla legge da attuare obbligatoriamente prima del giudizio.
- Il primo importante passo da fare è quello di inviare una lettera di diffida alla banca, con una pretesa di restituzione delle somme ingiustamente trattenute. Una pratica che, in caso di conto corrente chiuso, sarà altresì necessaria ai fini dell’interruzione della prescrizione. Ove la lettera di diffida non dovesse sortire l’effetto desiderato, sarà necessario procedere in via giudiziale, fermo restando l’obbligo di preliminare mediazione, finalizzata a risolvere la controversia senza adire il Tribunale.
- In alternativa, un’altra strada percorribile è rappresentata dall’Arbitro Bancario Finanziario (Abf), ossia quell’organismo indipendente e imparziale, dalla decisione non vincolante, istituito quale sistema alternativo di risoluzione di controversie tra le banche e i loro clienti.
- Accanto a questo organo, è stato istituito dalla Consob (con la delibera n. 19602 del 4 maggio 2016) l’Arbitro per le Controversie Finanziarie (Acf), organo imparziale e indipendente, chiamato principalmente a risolvere controversie tra gli investitori “retail” e gli intermediari finanziari, in caso di violazione, da parte di quest’ultimi, degli obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza.
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Sia che la controversia si risolva in via giudiziale o extra-giudiziale, è fondamentale non dimenticare che anche la domanda, per avviare un’azione volta alla restituzione delle somme indebitamente trattenute, ha un termine di prescrizione e a tal riguardo questo è di 10 anni.
La tutela giudiziale e il foro competente
Abbiamo capito che prima di avviare una causa contro l’istituto di credito, per qualsiasi ragione inerente l’insoddisfazione su rapporti di debito o di servizio, occorre effettuare un’attenta e dettagliata valutazione della convenienza, della sostenibilità delle proprie iniziative e dei risultati prevedibilmente ottenibili.
Una volta studiata la propria posizione con l’aiuto di un perito specializzato e una volta tentata con esito negativo la mediazione, un problema rilevante che spesso si verifica nella pratica consiste nella identificazione del giudice competente a decidere una azione giudiziaria avente a oggetto un credito.
Spesso, poi, nei contratti bancari è inserita una clausola vessatoria che determina il foro competente nel caso di azioni giudiziarie.
Solo nel caso in cui il soggetto contraente sia un consumatore potranno valere le regole di competenza dettate dal codice del consumo, e quindi instaurare la causa nel luogo in cui il consumatore ha la propria residenza.
Ma quindi, a quale giudice bisogna rivolgersi per fare causa alla banca?
Dipende dalle situazioni ed è necessario leggere il contratto di conto corrente onde valutare se vi sono i margini per instaurare una causa nel foro di competenza del cliente e se ciò è conveniente.
Ma analizziamo cosa dice il nostro codice di procedura civile riguardo al giudice competente:
- La competenza territoriale dell’organo designato a decidere una controversia è generalmente attribuita, ai sensi dell’art. 18 c.p.c., al giudice del luogo in cui il convenuto ha la propria residenza, o il proprio domicilio;
- Qualora il convenuto sia una persona giuridica, l’art. 19 c.p.c. prevede la competenza del giudice del luogo in cui vi sia la sede della persona giuridica, o comunque uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio.
- L’art. 20 c.p.c. prevede poi un criterio alternativo alla residenza o sede del convenuto, stabilendo difatti che per le cause relative ai diritti di obbligazione è anche competente il giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione dedotta in giudizio.
Pertanto chi agisce in giudizio per far valere un proprio diritto, può quindi decidere se applicare i criteri di competenza di cui agli artt. 18 e 19 c.p.c. o il criterio di cui all’art. 20 c.p.c.
Ora, nell’ipotesi in cui l’obbligazione dedotta in giudizio abbia ad oggetto una somma di denaro, l’art. 20 c.p.c. deve essere interpretato in combinato disposto con l’art. 1182 comma 3 c.c., secondo cui l’obbligazione avente per oggetto una somma di denaro deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha alla scadenza.
Dunque se il giudizio verte in materia di obbligazione di pagamento in denaro, ai sensi dell’art. 20 c.p.c. e dell’art. 1182 comma 3 c.c., può essere adito il giudice del luogo di residenza, domicilio o sede del creditore. Questo criterio trova applicazione con riferimento a qualunque obbligazione di pagamento in denaro e dunque anche in relazione alle obbligazioni di restituzione di ciò che sia stato indebitamente pagato.
Altra situazione interessante è quella sancita con ordinanza n. 21362/20, con la quale la VI sezione civile della Corte di Cassazione affronta la fattispecie, tutt’altro che rara nella prassi bancaria, in cui i rapporti contrattuali sono gestiti con una pluralità di documenti contrattuali che contengono diverse clausole derogative del foro. I giudici di legittimità hanno sancito il seguente principio:
in caso di pluralità di clausole relative al foro competente, per poter ritenere che le parti lo hanno voluto come esclusivo, occorre che l’esclusività sia espressa in ogni clausola che contiene la scelta del foro; solo in tal caso la scelta del foro può ritenersi esclusiva in modo non equivoco.
Pertanto, il cliente-creditore che agisca in azione restitutoria nei confronti della banca potrà adire la stessa avanti al proprio tribunale, allorché richieda il pagamento di una determinata somma di denaro, quantificata e determinata nel suo ammontare (magari anche in una perizia di parte).
Se invece i rapporti contrattuali sono gestiti con una pluralità di documenti contrattuali di conto corrente che contengono diverse clausole derogative del foro, l’indicazione dell’esclusività del Foro prescelto deve essere univoca e non lasciar adito a dubbi. La designazione convenzionale accordata dalle parti di un foro (in deroga a quello territoriale stabilito dalla legge) deve essere precisato in una enunciazione espressa che non deve lasciare adito ad alcun dubbio sulla comune intenzione delle parti di escludere la competenza dei fori ordinari.
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