Davvero più inflazione USA e fine tagli tassi Fed con Trump? A Wall Street il grande dubbio su crash intenzionale

Laura Naka Antonelli

12 Marzo 2025 - 16:44

Reso appena noto l’indice dei prezzi al consumo USA del mese di febbraio, parametro tra i più importanti per monitorare l’inflazione. Ma davvero con Trump PIL più forte e fine tagli tassi Fed?

Davvero più inflazione USA e fine tagli tassi Fed con Trump? A Wall Street il grande dubbio su crash intenzionale

Nel mese di febbraio 2025 l’inflazione headline degli Stati Uniti misurata dall’indice dei prezzi al consumo CPI è salita al ritmo annuo del 2,8%, meno del +2,9% atteso dagli economisti.

Su base mensile, il trend dell’inflazione headline è stato di un rialzo dello 0,2%, rispetto al +0,3% stimato.

L’inflazione core degli Stati Uniti - CPI core, al netto dei prezzi dei beni alimentari ed energetici - è salita al ritmo annuo del 3,1%, meno del +3,2% previsto dal consensus.

Inferiore alle previsioni anche il trend su base mensile dell’inflazione core, pari a un rialzo dello 0,2% a febbraio, rispetto al +0,3% messo in conto dagli analisti.

Immediata la reazione di Wall Street, con i futures sull’indice Dow Jones scattati fino a +350 punti dopo la diffusione del report, che ha fatto tornare alla ribalta, soprattutto a seguito degli alert sull’indebolimento dell’economia americana, addirittura sull’avvento di una recessione (quest’ultima ipotesi che, tra l’altro, lo stesso presidente USA Donald Trump non ha escluso), la possibilità che la Fed torni a tagliare i tassi di interesse degli States.

Detto questo, il sentiment a Wall Street, dopo i forti sell off delle ultime sedute e dopo l’iniziale reazione positiva al dato relativo all’inflazione USA, si è fatto progressivamente cauto.

Inflazione core in rialzo del 3,1% a febbraio, crescita più bassa in quattro anni. Ma target Fed ancora lontano

Tornando al dato market mover annunciato oggi, occhio soprattutto al trend della componente core dell’inflazione CPI che, con un rialzo su base annua pari a +3,1%, ha segnato la crescita più bassa dal 2021.

I numeri relativi all’inflazione sono inevitabilmente ancora “caldi”: il target del 2% su cui punta la Federal Reserve di Jerome Powell rimane infatti ancora troppo più basso rispetto alle indicazioni piombate di nuovo a Wall Street, stavolta con la pubblicazione dell’indice CPI.

Sta di fatto che, da un po’ di sedute, quelle previsioni di politica monetaria che includevano anche il rischio che Powell tornasse ad alzare i tassi, nel corso del 2025, sono state stravolte (e già da un po’).

Certo, rimane sempre il problema del costo delle abitazioni (componente shelter), salito dello 0,3% a febbraio: la voce è stata tuttavia compensata dal calo dei prezzi della benzina (-1%) e dei biglietti aerei (-4%).

In generale, su base mensile, i prezzi energetici, nonostante la flessione dei prezzi della benzina, hanno riportato invece un rialzo pari a +0,2% su base mensile.

John Kerschner, Head of US Securitised Products di Janus Henderson, ha così commentato il trend del market mover reso noto oggi e la reazione dei mercati:

Il mercato ha tirato un grande sospiro di sollievo questa mattina quando il dato dei prezzi al consumo di febbraio è risultato inferiore alle aspettative, con un 0,23% per l’inflazione core e uno 0,22% per quella generale. Le aspettative per entrambe erano comprese tra lo 0,2% e lo 0,35%, con un consenso per entrambe allo 0,3%. Il tasso su base annua per l’inflazione core è sceso al 3,1% dal 3,3% del mese scorso e dal 3,8% dell’anno precedente. Si tratta del valore su base annua più basso da maggio 2021, quando l’inflazione stava aumentando a causa dei problemi della catena di approvvigionamento lasciati dalla pandemia di Covid. Questi numeri danno credito all’idea che i progressi della Fed nella lotta all’inflazione stiano funzionando, anche se più lentamente di quanto sperato”.

L’esperto di Janus Henderson ha continuato, facendo notare che “uno dei fattori principali che hanno contribuito a far sì che l’inflazione sia inferiore alle aspettative sono state le tariffe aeree, che sono diminuite del 4%. Questo dopo che diverse compagnie, tra cui Delta, hanno registrato un crollo dei viaggi aerei e quindi minori guadagni futuri”.

Certo, “si tratta solo un indicatore del fatto che il consumatore resiliente sta finalmente esaurendo le sue forze. Tuttavia, la cosa più sorprendente è che il mercato obbligazionario abbia operato un sell off sulla base di questi numeri. Si tratta molto probabilmente di una correzione del grande rally delle obbligazioni (tassi in calo) dalla fine di febbraio, che ha portato il Treasury USA a 10 anno in calo di circa 20 punti base. Le azioni, d’altra parte, dopo un inizio di settimana pessimo, stanno recuperando”.

Guardando avanti, John Kerschner ha sottolineato che l’outlook è di una volatilità dei mercati che “continuerà a ritmo sostenuto, visti i pronunciamenti quotidiani sulla questione dei dazi da parte della Casa Bianca”.

Detto questo, gli investitori possono almeno avere un minimo di fiducia nel fatto che gli aumenti dei tassi che la Fed ha messo in atto diversi anni fa continuino a funzionare e stiano lentamente portando l’inflazione al loro obiettivo del 2%”.

In definiva, “anche se non crediamo che la Fed taglierà i tassi la prossima settimana durante la riunione periodica, questo lascia la porta aperta a un taglio a maggio, o più probabilmente a giugno. Attualmente, il mercato ha una probabilità superiore al 95% che la Fed tagli i tassi entro la Festa del Papà a giugno”.

Il dubbio che assilla Wall Street, crash azioni USA orchestrato da Trump e il suo team?

Intanto, a Wall Street, continua a serpeggiare il dubbio che i forti smobilizzi che hanno affossato le azioni nelle ultime sessioni siano stati frutto dell’intenzione dell’amministrazione Trump di far crollare la borsa USA con l’obiettivo di portare la Fed a tagliare i tassi di interesse.

Il piano di Trump per far scendere il conto del debito USA

Occhio alle riflessioni che sono state fatte da Pompliano, fondatore e CEO della società di gestione Professional Capital Management e dall’altra voce del mondo dell’alta finanza made in USA, ovvero da Thomas Kralow. Riflessioni che hanno chiamato in causa l’esigenza degli Stati Uniti di rifinanziare un ammontare monstre di debito del valore di ben 7 trilioni di dollari nell’arco di pochi mesi.

L’obiettivo dell’amministrazione Trump, dunque, secondo Kralow, sarebbe stato quello di provocare in tutti i modi un forte dietrofront di Wall Street, per far scendere soprattutto i rendimenti dei Treasury a 10 anni, al fine di consentire a Washington di rifinanziare il debito a tassi più bassi.

Il piano di Trump starebbe anche funzionando, dice qualcuno visto che, ha commentato Pompliano, i rendimenti dei Treasury decennali sono scesi dal valore pari a quasi il 4,8% segnato nel mese di gennaio fino al 4,21%, con la discesa provocata dalla decisione di diversi investitori di mollare Wall Street per fare incetta di titoli di Stato Usa, fattore che ha fatto scendere i rendimenti.

Kralow, dal canto suo, ha scritto nel suo post su X che i rendimenti dei Treasury più bassi porteranno la Fed di Jerome Powell a tornare a tagliare i tassi: una prospettiva che, all’inizio del 2025, con tutte le previsioni hawkish che erano state elaborate da diversi economisti, si sta infatti ripresentando sui mercati finanziari.

Fed Day in arrivo, cosa succederà ai tassi sui fed funds USA?

Nel breve, ovvero per la prossima riunione del FOMC, il braccio di politica monetaria della Federal Reserve, in calendario il prossimo 19 marzo, il FedWatch del CME segnala una probabilità pari a ben il 96% di tassi di interesse che rimarranno fermi tra il 4,25% e il 4,50%, dunque di un nulla di fatto, così come è stato in occasione del primo Fed Day della fine di gennaio.

Lo stesso strumento del CME intravede tuttavia ora una probabilità del 50% che i tassi USA possano essere tagliati dalla Federal Reserve nel meeting successivo.

Inoltre, c’è chi ritiene che una recessione inflitta da Trump, che a Wall Street ha preso ormai il nome di “Trumpcession”, costringerà la Banca centrale americana a tagliare ulteriormente i tassi, in un contesto in cui sta salendo la probabilità che l’economia americana scivoli in una fase di recessione a causa della guerra commerciale lanciata dal presidente USA.

Basti pensare che la divisione di ricerca di JPMorgan ha aumentato il rischio di recessione per questo anno al 40%, dal 30% previsto all’inizio dell’anno.

Anche gli economisti di Goldman Sachs hanno rifatto i conti, alzando dal 15% al 20% la probabilità di una recessione negli USA nei prossimi 12 mesi.

Nel frattempo, il nervosismo a Wall Street rimane alto: dopo una reazione inizialmente positiva alla pubblicazione del dato relativo all’inflazione USA, il Dow Jones perde lo 0,74%. Piatto lo S&P 500, mentre il recupero delle azioni tecnologiche è inciso nella performance del Nasdaq Composite che, dopo i recenti tracolli, avanza dello 0,70% circa.

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