Svolta green, qualcosa non va. La Cina beneficia degli investimenti europei e famiglie e imprese ne pagano il prezzo.
Frans Timmermans non sarà più il commissario responsabile del Green deal e della politica ambientale europea. Sarà l’avvicinarsi delle elezioni per il nuovo parlamento europeo, forse le più importanti da quando esiste l’unione. Sarà la crisi economica, che incombe sempre più sul vecchio continente. O forse sarà solo una presa di coscienza che così, come è stato concepito, il nuovo corso verde dell’Europa rischia di provocare molti più danni che benefici. Ed è per questo che, in questi ultimi mesi, la Commissione europea e la sua presidente Ursula Von der Leyen sembrano aver perso un po’ di quel furore ideologico che sembrava aver pervaso le loro menti, indirizzandole verso ciò che ai più appariva non sostenibile dal punto di vista economico.
Se, almeno nella sostanza, leggi come quella del ripristino della natura o quella del divieto dei motori termici entro il 2035, o ancora la direttiva sulle prestazioni energetiche degli edifici (che per il nostro Paese significherebbe effettuare lavori su circa il 70% del patrimonio immobiliare nazionale) potevano essere condivise - certamente tutti siamo per vivere in un mondo più vivibile e sano -, sono certamente da condannare sia nella forma che nei tempi con i quali si vogliono approvare e, in un certo senso, imporre ai cittadini europei.
È tempo di abbandonare ideologie anti-industriali e dannose per la competitività delle nostre imprese rispetto ai loro concorrenti extraeuropei. La transizione green non deve essere sostenibile solo per l’ambiente ma anche e soprattutto per le imprese,
ha ribadito due giorni fa il capo delegazione del partito della premier al Parlamento europeo, Carlo Fidanza. Perché, se si può essere tutti d’accordo sulla necessità di fare qualcosa per limitare le emissioni di CO2 e avere un approccio più verde e sostenibile per salvaguardare l’ambiente, non si può però tollerare che a pagare la gran parte del conto siano soprattutto famiglie e imprese europee.
Perché qualsiasi transizione ha dei costi elevati, come ben dimostra il piano di aiuti a famiglie ed imprese contenuto nell’IRA, approvato lo scorso anno dall’amministrazione Biden.
L’idea di non permettere che il costo della sostenibilità sia pagato perlopiù da famiglie e imprese fino a qualche mese fa era condivisa quasi in solitaria dal gruppo dei conservatori europei. Adesso si sta assistendo a molti ripensamenti non solo dai popolari europei, ma anche dai liberali di Renew Europe.
Basta pensare al successo clamoroso del partito degli agricoltori olandesi, il BBB, che è riuscito ad arrivare al 20% dei consensi (per poi calare all’attuale 13%) proprio grazie alla sua ferma contrarietà alle politiche green del connazionale Timmermans, che hanno avuto ricadute pesanti sul mondo degli agricoltori. Senza contare che tutto questo furore verso ciò che è green e sostenibile non fa altro che favorire chi, come la Cina, pur essendo il primo inquinatore mondiale ha investito moltissimo sull’industria “verde” e, come ricorda il co-presidente dell’Ecr Nicola Procaccini, su molti settori come quello dei pannelli solari, dove ha praticamente il monopolio mondiale assoluto.
Nei suoi numeri e nelle modalità di impostazione e attuazione la transizione energetica dettata dalla UE rischia di essere soltanto un colossale regalo alla Cina. Come evidenziato dall’Aie, l’Agenzia internazionale dell’energia, la Cina ha ormai il monopolio assoluto della produzione di pannelli solari ma anche delle materie prime e praticamente di ogni componente della catena, dal silicio fino al pannello finale. Il vero paradosso è che tutto questo è finanziato proprio dalla UE che è schiacciata sul solare per il quale è totalmente dipendente da Pechino,
ha affermato ad agosto l’eurodeputato Procaccini, membro della Commissione europea Ambiente e responsabile per l’ambiente del partito della premier Giorgia Meloni.
Proprio due settimane fa, a Strasburgo, la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, che da sempre è tra le più convinte e accese sostenitrici della transizione green tout court, ha annunciato un’indagine anti-dumping sulle auto elettriche cinesi. Meglio tardi che mai, sarebbe il caso di dire, anche se potrebbe essere molto difficile - in una situazione congiunturale non semplice - cominciare una guerra commerciale dai riflessi imprevedibili.
Certo è che l’Europa sembra finalmente rendersi conto che la politica green portata avanti fino ad ora, quasi in solitaria, non può più essere sostenibile, pena un possibile peggioramento del quadro economico, con conseguenti ricadute sul voto europeo del prossimo giugno.
Quanto accaduto in Slovacchia, ma anche in Polonia con la contesa tra l’attuale premier Morawiecki e l’ex presidente del Parlamento europeo, il popolare Donald Tusk, gioca moltissimo sul voto degli agricoltori, che mal vedono le politiche ambientaliste di socialisti e liberali europei (con la partecipazione dei popolari europei), che costringono coltivatori di tutta Europa ad adottare costosissime modifiche alle loro abitudini, che rischiano di determinare la chiusura di migliaia di piccole aziende agricole.
La posta in gioco sta diventando sempre più alta e gli interessi politici stanno già comportando un deciso passo indietro su alcune delle decisioni più controverse in tema ambientale. Il piano sul ripristino della natura ha già avuto un deciso annacquamento grazie ad una serie di emendamenti di Ecr e popolari. Sui motori termici, dopo il deciso passo indietro della Gran Bretagna di Sunak, anche l’Europa sta pensando seriamente di rimandare di qualche anno e di concedere alcune aperture anche ai biocarburanti, il cui uso, come combustibile green, da sempre viene sostenuto dal governo italiano.
Mentre la riqualificazione degli edifici sarà discussa certamente da capo nella prossima legislatura. Insomma, se non si tratta di un deciso ripensamento, certamente lo si può definire una prima retromarcia, da guardare forse come una naturale e salutare pausa di riflessione. Come diceva il grande filosofo Roger Scruton, conservatore e grande ecologista, ambiente e ambientalismo sono due questioni differenti, per quanto correlate; il secondo non sempre gioca a vantaggio del primo, e nemmeno della società.
Dietro battaglie giuste come la salvaguardia dell’ambiente e il contrasto all’inquinamento, si nasconde però il tentativo di diffondere un’ideologia globalista e contraria all’identità. È necessario perciò proporre una visione alternativa a questo ambientalismo che ha le proprie radici nel ’68 e si fonda su una visione anti-imprese, anti-crescita e non tiene conto delle esigenze sociali delle persone,
diceva il grande pensatore britannico. E pare proprio una descrizione che si attaglia alla perfezione a quello che è stato l’atteggiamento europeo verso il tema ambientalista fino a pochissimi mesi fa.
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