Il mercato già prezza un possibile epilogo rigorista al board Bce del 10 giugno prossimo e gratta la patina di vernice che finora ha ricoperto le crepe degli spread sovrani della periferia dell’eurozona. Nella una nuova estate rovente si fa strada un detonatore: ancora Atene con il suo debito, come in un drammatico déjà vu. Che Mario Draghi è stato chiamato ad evitare.
La riunione del board Bce del 10 giugno prossimo sarà, di fatto, una riedizione della sfida all’Ok Corral.
La guerra tra gole profonde andata in scena dopo la conferenza stampa post-Consiglio della settimana scorsa e felicemente ospitata da Reuters e Bloomberg ne è stata la conferma: falchi e colombe lasceranno passare questo mese e mezzo il più possibile in regime di tregua armata ma, alla fine, la questione dirimente dell’eventuale taper del programma Pepp dovrà essere affrontata. E risolta.
In effetti, la stessa Christine Lagarde aveva lasciato intendere che il clima non fosse quello ideale per uno slancio espansivo, ribadendo sì l’accelerazione nel ritmo degli acquisti ma solo per il secondo trimestre in corso, a saldi invariati rispetto ai 20 miliardi mensili di controvalore e senza mettere sul tavolo l’utilizzo dell’envelop. Tradotto, le colombe avevano ottenuto il rinvio del redde rationem ma potendo comunicare al mercato solo il minimo sindacale di intervento.
Fin qui, fonti anonime e scontri ad alto livello sull’impostazione della politica monetaria. Il problema è che il medesimo mercato che Christine Lagarde ha cercato di blandire con il poco materiale rassicurante a sua disposizione, poche ore dopo la guerra di boatos in seno all’Eurotower ha emesso un suo primo verdetto.
Tutt’altro che rassicurante per l’Italia. E, soprattutto, decisamente in grado di drammatizzare non poco il mezzo showdown andato in scena sabato scorso fra Mario Draghi e Ursula Von der Leyen rispetto ai contenuti del Recovery Plan italiano, ora al vaglio delle Camere, poi atteso all’ultimo tagliando del Consiglio dei ministri prima di essere recapitato a Bruxelles entro il 30 aprile.
Il titolo scelto da Bloomberg per l’articolo è di quelli che non si presta a interpretazioni: Europe’s most indebted countries aren’t ready for market reality. E a differenza di quello pubblicato solo 24 ore prima, nel quale alcune fonti sotto anonimato preannunciavano appunto guerra in vista del 10 giugno, qui le opinioni espresse hanno una paternità chiara. Con nome, cognome, posizione ricoperta e azienda per cui si lavora. Insomma, poche chiacchiere e molta sostanza.
A partire da Eric Lonergan, money manager alla M&G, a detta del quale ciò che si è ottenuto finora è un’eliminazione solo temporanea del rischio di credito sovrano nell’eurozona, il tutto dovuto alla risposta verso un’emergenza. Il problema vero si pone appunto quando si esce da questa condizione di deroga e si rientra giocoforza in una logica di mercato per quanto riguarda il proprio comparto obbligazionario. Occorre ammettere che i numeri di alcuni Paesi sono davvero, davvero brutti. Possiamo dire che, ironicamente, l’Europa oggi è decisamente vulnerabile alla ripresa.
E, purtroppo, fra le percentuali meno rassicuranti ci sono proprio quelle italiane, come sottolinea Hendrik Tuch, a capo del dipartimento fixed income alla Aegon Asset Management: L’Italia è in grado di rifinanziare il proprio debito a rendimenti molto più bassi soltanto grazie alla Bce, una condizioni che di fatto ha quasi tramutato la pandemia in una benedizione travestita per Roma. Ma quei premi di rischio compressi non sono frutto di quanto accade in Italia, bensì a Francoforte e Bruxelles. Questo significa che a livello di outlook di lungo termine, il problema per il mercato obbligazionario sovrano appare decisamente serio.
Il problema ulteriore risiede poi nel fatto che non tutti guardino alla situazione soltanto nella prospettiva di lungo termine ma, al contrario, paiono decisamente propensi a una prezzatura anticipatoria, a un hedging cautelare in vista del probabile showdown del 10 giugno e dei suoi contraccolpi. Questi ultimi garantiti, qualsiasi sia l’esito dello scontro.
Il capo dell’unità global bonds di PGIM Fixed Income, Robert Tipp, ammette di avere ancora un occhio di riguardo nel confronti del debito periferico dell’eurozona, attitudine mantenuta fin dal post-crisi del 2011-2012 ma comincia a preoccuparsi per la prospettiva di un ritiro dello stimolo: Il rischio risiede tutto nel grado di rapidità con cui si passerà da un ambiente di stimolo enorme come quello attuale a uno di rettitudine fiscale. Più sarà irto il cambiamento, più saliranno i pericoli. Perché occorre essere sinceri: i fondamentali di quei Paesi sono decisamente orrendi.
Rettitudine fiscale, termine che pare uscito da una discussione interna della Bundesbank ma che, invece, evoca immediatamente il busillis che ha portato alla telefonata chiarificatrice di sabato sera fra Mario Draghi e Ursula Von der Leyen: la Commissione UE si diceva decisamente poco convinta del percorso di riforma fiscale (e della giustizia) contenuto nel piano italiano in seno al NextGenerationEu, tanto da obbligare il capo del governo a spendere la propria parola e il proprio nome come garanzia. Un collaterale con rating AAA, sicuramente.
Ma proprio per questo destinato a tramutarsi in ulteriore risolutezza da parte di Palazzo Chigi nei confronti delle bizze dei partiti che compongono la maggioranza.
Se infatti la politica non ha capito il crinale su cui si sta già muovendo il Paese, il primo ministro lo ha ben presente. Non fosse altro per la sua occupazione precedente a quella attuale. Insomma, chi gioca a marchiare il territorio su temi ridicoli come il coprifuoco da spostare di un’ora in avanti, forse non ha ben presente quali siano invece i discorsi riguardanti l’Italia che già circolano nelle sale trading.
E forse, al riguardo, potrebbero risultare utili le previsioni di Saxo Bank, la quale nell’ultimo report azzarda addirittura la possibilità di una seconda fase della crisi dei debiti sovrani europei dopo quella di un decennio fa. Il detonatore? La fuga degli investitori esteri dal debito greco, di cui detengono il 90% dell’outstanding.
Insomma, un déjà vu totale. Il quale lascia intravedere anche un possibile argomento da fuoco alle polveri per il board del 10 giugno: in caso la situazione pandemica non consentisse un inizio di ritiro tout court degli acquisti, qualcuno nel fronte del Nord - spaventato da un regime di deroghe che potrebbe lentamente ma inesorabilmente tramutarsi in mutualizzazione del debito europeo, per mezzo del finanziamento diretto dei deficit - potrebbe chiedere appunto il rientro quantomeno nei criteri statutari di utilizzo dei programmi di Qe.
Tradotto, stop alla sospensione del limite del 33% per emittente e della capital key pro quota sugli acquisti e anche all’accettazione proprio di titoli di debito ellenici come collaterale per operazioni di finanziamento.
Soltanto la prezzatura di rischio al riguardo, spedirebbe lo spread di Atene - finito addirittura sottozero nelle scadenze a brevissimo - alle stelle. E il comparto bancario nuovamente all’inferno, oltretutto dopo l’addio decisamente sospetto del numero uno del Fondo di salvataggio nazionale, la bad bank nata per ripulire il settore. Il quale, stranamente, era un austriaco.
A detta di Saxo Bank, la preoccupazione maggiore risiede nel fatto che attualmente i rendimenti dei bond statunitensi sono di 60 punti base maggiori rispetto all’inizio dell’anno, condizione che comparta un’equazione currency hedging molto favorevole e tale da spingere gli investitori a preferire i Treasuries al debito periferico dell’eurozona.
Se poi da quest’ultima partissero turbolenze politiche in seno al board Bce, quella corsa alla diversificazione potrebbe facilmente assumere i contorni della sell-off.
Mario Draghi faccia presto, ha dichiarato Romano Prodi in una recente intervista. Quasi una risposta implicita all’affermazione finale del già citato Eric Lonergan: A mio avviso, all’orizzonte è davvero difficile scorgere qualcosa che sia differente da un ritorno all’austerità fiscale. Non so quando questa tornerà a colpire i Paesi più indebitati ma le probabilità salgono di giorno in giorno, quantomeno tenendo come riferimento fisso il mercato obbligazionario delle componenti più vulnerabili dell’eurozona.
Forse non tutti hanno ben chiaro quale sia la posta in gioco, da qui a metà giugno. Ma proprio il precedente del 2011 dovrebbe suonare da monito, stante la tempistica che vide l’estate infuocarsi con la famosa lettera di Commissione e Bce al ministro Tremonti. E la conseguente esplosione autunnale dello spread.
Mario Draghi è stato chiamato dal Quirinale proprio per evitare questo dèjà vu, conoscendo il clima politico del Paese e la sua incapacità di guardare oltre l’orticello della prossima scadenza elettorale. E non saranno i capricci particolaristici dei partiti, sia di maggioranza che di opposizione, a fermarlo. Perché l’alternativa è la ristrutturazione del debito, in via più o meno ordinaria.
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