Fissare una donna è un reato? I giudici più di una volta si sono espressi sull’argomento. Ecco cosa c’è da sapere.
Il tema della violenza sulle donne è sempre più attuale. Il dato triste è che sono troppo frequenti i casi di cronaca che riguardano i reati di genere, ma il fattore positivo è che la sensibilizzazione sull’argomento è piuttosto accorta. I comportamenti almeno in apparenza banali, come appunto fissare o comunque guardare con insistenza, sono quelli che generano più polemiche, insieme ad altre azioni potenzialmente correlate al corteggiamento non gradito.
Qualcuno lamenta un’eccessiva rigorosità, il classico “non si può più fare/dire nulla”. Altri difendono il diritto di sentirsi al sicuro e a proprio agio senza sguardi inopportuni. In ogni caso, la questione ha varcato più di una volta le aule di tribunale. La giurisprudenza, infatti, consente oggi di inquadrare la fattispecie penale con sufficiente precisione.
Si precisa che l’azione ha la stessa rilevanza penale a prescindere dal genere della vittima e dell’autore, anche quando ciò riguarda il movente. Non sono previste aggravanti per il movente di genere, pertanto tutte le disposizioni possono essere declinate a seconda delle circostanze. Semplicemente, si fa riferimento all’ipotesi in cui è la donna a essere guardata insistentemente per la maggiore trattazione della giurisprudenza, conseguente a una maggiore frequenza di episodi portati in causa.
È reato fissare una donna?
Fissare una donna può configurare un reato, ben più generico di quanto si possa pensare. Si tratta infatti del reato di molestie, definito dall’articolo 660 del Codice penale.
Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo reca a taluno molestia o disturbo è punito, a querela della persona offesa, con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516.
I requisiti del reato sono quindi:
- il trovarsi in un luogo pubblico;
- l’indiscrezione e la sfacciataggine (petulanza) o il motivo biasimevole, che cioè non trova alcun interesse accettabile;
- la molestia o il disturbo creato alla vittima, secondo la sensibilità comune.
In altre parole, deve trattarsi di una condotta tale da arrecare un disagio importante a chi la subisce, non tanto per le caratteristiche individuali della persona offesa, ma per l’elemento oggettivo dell’insistenza e secondo il modo di vivere della “gente comune”.
Un unico sguardo non può quindi essere considerato un reato, per quanto il soggetto possa sentirsi infastidito. Devono essere prese in considerazione le abitudini della maggior parte delle persone, tenendo conto anche del contesto sociale. Per contro, fissare incessantemente una persona in luogo pubblico, specie se accompagnando gli sguardi a molestie verbali o a gesti, può integrare il reato di molestie.
Più difficile, invece, che gli sguardi integrino il reato di stalking. Una recente sentenza del Tar del Veneto ha annullato l’ammonimento emesso dal questore nei confronti di un uomo accusato di un corteggiamento insistente e inopportuno ai danni di una cameriera. In particolare, l’uomo si recava appositamente nel bar dove lavorava la donna con regali e fiori, appunto fissandola per buona parte del tempo.
Secondo i giudici “I gesti compiuti dal ricorrente all’interno dei bar nel tentativo di conquistare la donna, pur avendo potuto creare imbarazzo o fastidio, valutati nello specifico contesto sono da considerare innocui e inoffensivi”. Viene così precisata una differenza tra il corteggiamento non gradito e gli atti persecutori, che generano ansia, timori o un cambiamento nelle abitudini della vittima, almeno secondo il parere del Tar del Veneto.
In passato anche la Corte di Cassazione ha ricordato che affinché fissare una donna integri il reato di stalking è necessaria la reiterazione della condotta, con modalità tali da generare paure e angoscia. La Cassazione ha invece escluso che fissare una persona possa integrare il reato di violenza privata. Resta quindi l’ipotesi delle molestie in luogo pubblico, punibili a querela della persona offesa entro 3 mesi dal fatto.
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