La deterrenza USA, per ora, sembra funzionare. Quanto a quella europea ed al ruolo politico dell’UE nella vicenda meglio sorvolare. L’analisi dell’ex Ambasciatore, Marco Carnelos.
Riceviamo e pubblichiamo l’analisi dell’ex Ambasciatore d’Italia in Iraq, Marco Carnelos.
Mentre l’offensiva israeliana a Gaza prosegue con il pesantissimo bilancio di vittime, sfollati, e infrastrutture distrutte e danneggiate, sembrerebbe anche utile riflettere sugli obiettivi che sarebbero perseguiti dalle parti in causa per provare a dare un senso - ammesso che con oltre 10.000 vittime tra israeliani e palestinesi sia possibile - alla tragedia che si sta consumando.
Con l’efferato attacco terroristico del 7 ottobre scorso, Hamas ha inteso perseguire due finalità ben precise: demolire il fino ad allora indiscusso e granitico potere militare deterrente di Israele e acquisire una forte leva negoziale verso lo Stato ebraico per ottenere il rilascio dei propri prigionieri detenuti nelle carceri israeliane.
Appare ineludibile il fatto che entrambe siano state in qualche modo raggiunte.
Il 7 ottobre 2023 Israele ha subito il più pesante attacco dai tempi della guerra di indipendenza del 1948, e senza dubbio quello più traumatico. Le leggendarie capacità delle proprie forze armate e dei servizi di intelligence sono state letteralmente umiliate da un gruppo di miliziani male armati che vivono un’enclave sovraffollata sigillata da terra, mare e aria e oggetto di un blocco totale quasi ventennale. Un esempio che – sempre nelle intenzioni di Hamas – dovrebbe motivare tutti quei Paesi e movimenti che nella regione si oppongono all’occupazione israeliana dei territori palestinesi o che mettono addirittura in dubbio il diritto all’esistenza dello Stato ebraico.
Con oltre duecento ostaggi tra militari e civili israeliani nelle proprie mani, Hamas dispone ora di uno strumento di pressione, straordinario e senza precedenti, per chiedere il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane; tra questi figurano alcune migliaia che si trovano da anni nell’anomala condizione di detenzione amministrativa, ovvero sono imprigionati ma senza un capo d’imputazione specifico emesso nei loro confronti. Nella logica di Hamas, i Palestinesi sotto detenzione amministrativa sono considerati degli ostaggi dal momento che nessun formale procedimento giuridico sarebbe stato adottato nei loro confronti, ovvero sono in stato di arresto per il semplice fatto di essere Palestinesi. Nell’eventuale trattativa dovrebbe figurare anche la restituzione di circa 150 cadaveri di militanti palestinesi uccisi che le Autorità israeliane non hanno mai reso alle rispettive famiglie per la sepoltura. Hamas conta naturalmente sul fatto che nel 2011 Israele liberò oltre un migliaio di prigionieri palestinesi per ottenere il rilascio di Gilad Shalit, un militare israeliano che era stato sequestrato ben 5 anni prima.
Difficile stabilire se Hamas abbia inteso perseguire obiettivi più ampi, di natura geopolitica, come ad esempio bloccare la finalizzazione dei negoziati tra Israele ed Arabia Saudita per definire l’adesione di quest’ultima agli Accordi di Abramo del 2020 la cui conclusione sembrava imminente. E’ un fatto, tuttavia, che il processo di ampliamento di tali accordi per il momento è bloccato.
Per quanto riguarda Israele, la durissima reazione agli attacchi del 7 ottobre avrebbe come finalità la distruzione, una volta per tutte, di Hamas e delle sue infrastrutture nella Striscia di Gaza. Se tale obiettivo sia effettivamente raggiungibile e a quale prezzo (sia in termini di perdite di soldati israeliani che di civili palestinesi) è ancora oggetto di speculazioni. Sembra tuttavia consolidarsi l’impressione che per sradicare Hamas da Gaza sia necessario de-popolare almeno metà della Striscia, quella settentrionale, dove l’organizzazione radicale palestinese avrebbe le sue principali roccaforti. Da settimane, infatti, le Autorità israeliane intimano alla popolazione di Gaza Nord di trasferirsi nella parte meridionale della Striscia.
Se Israele potrà poi sopportare il danno di immagine che subirebbe per aver imposto il trasferimento forzato di 1 milione di persone in un’area che già registra la più alta densità abitativa al mondo e per la catastrofe umanitaria che potrebbe derivarne resta a dir poco controverso.
Per Israele si presenta quindi un profondo dilemma, affrontare un durissimo conflitto urbano a Gaza per decapitare Hamas, subire forti perdite tra i suoi soldati e probabilmente mettere a repentaglio la vita di tutti gli ostaggi e rischiare un sempre possibile allargamento regionale del conflitto o fermare l’offensiva ed intavolare una trattativa con il rischio – tra qualche anno – di ritrovarsi a dover competere nuovamente con Hamas. Se vuole salvare gli ostaggi deve negoziare con Hamas, se vuole distruggere quest’ultima deve essere pronta a sacrificare gli ostaggi e compromettere non sappiamo per quanto tempo la prospettiva aperta dagli Accordi di Abramo.
Un simile dilemma si intreccia anche con il destino politico del Premier Netanyahu che è ai minimi storici della sua popolarità e le cui esigue possibilità di salvarsi dalla débâcle del 7 ottobre sono appese alla possibilità di passare alla storia come il primo Premier israeliano che abbia definitivamente sradicato Hamas. Non è un caso, tuttavia, che negli ultimi giorni Netanyahu stia facendo crescente ricorso a toni messianici e biblici per giustificare l’offensiva terrestre e la necessità di eliminare definitivamente Hamas.
Anche il mondo arabo più aperto verso Israele, ovvero quei paesi che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo, inizia infatti ad inviare segnali preoccupanti. Il Bahrein e la Giordania hanno richiamato i propri Ambasciatori a Gerusalemme. Conoscendo le dinamiche tra Manama e Riad è difficile immaginare che il Bahrein avrebbe fatto un passo così importante senza aver ottenuto io previo assenso dell’Arabia Saudita. In sintesi, tutta la strategia di Abramo di integrare Israele nella regione con accordi separati nel solco di quelli con Egitto e Giordania siglati nei decenni precedenti rischia di subire una seria battuta d’arresto.
Sullo sfondo, poi, permane l’interrogativo più inquietante, ovvero se Russia, Cina ed Iran – nonostante gli scontati appelli per un cessate il fuoco – stiano osservando compiaciuti una situazione che vede gli Stati Uniti fortemente esposti su tre fronti. Oltre al conflitto in Ucraina, sul quale è calata una cortina di silenzio, e all’impegnativo sforzo per contenere economicamente e tecnologicamente la Cina con un potenziale fronte militare incentrato su Taiwan, Washington – mentre le elezioni si avvicinano – è ora impegnata in un inedito dispiegamento militare in Medio Oriente finalizzato a dissuadere gli altri membri del cosiddetto Asse della Resistenza (Hezbollah, Siria, milizie filo-iraniane in Iraq e Yemen, e, infine, Iran) dall’intervenire militarmente e in modo concertato e massiccio a fianco di Hamas.
Un allargamento del conflitto con la partecipazione degli Stati Uniti potrebbe aprire scenari imprevedibili con nuovi massicci flussi di profughi verso l’Europa e fortissime incertezze negli approvvigionamenti energetici mentre l’inverno sta arrivando nell’emisfero boreale e l’inflazione manifesta una forte resilienza. Nel 2024 gli elettori europei (elezioni al Parlamento Europeo) e quelli americani (elezioni presidenziali) potrebbero esprimere in modo perentorio la loro insoddisfazione.
Nel suo discorso di venerdì scorso, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah è rimasto ambiguo su cosa farà il suo movimento nei prossimi giorni, lanciando contestualmente severi moniti a Stati Uniti e Israele; dal canto suo, il Segretario di Stato USA Blinken, incontrando le sue controparti arabe “moderate” in Giordania sabato scorso, non sembra aver ottenuto sponde significative.
Forse la leadership di Hamas non avrebbe mai immaginato che con l’attacco terroristico del 7 ottobre, oltre ad intaccare il potere deterrente di Israele, avrebbe finito con il mettere alla prova anche quello degli Stati Uniti d’America e delle altre democrazie occidentali. La deterrenza USA, per ora, sembra funzionare. Quanto a quella europea ed al ruolo politico dell’UE nella vicenda meglio sorvolare.
Quello che potrebbe veramente rivelarsi inquietante e che la data del 7 ottobre 2023 possa passare alla storia come qualcosa di analogo a quella del 28 giugno 1914.
Quei pochi che pongono ancora attenzione alla Storia possono capire facilmente le catastrofiche potenziali implicazioni di tale analogia.
Marco Carnelos ha lavorato venticinque anni nella carriera diplomatica con incarichi in Somalia, Nazioni Unite, Iraq e come consigliere di tre Presidenti del Consiglio in diversi ambiti (Medio Oriente, Terrorismo, Russia, promozione economico-commerciale, attrazione degli investimenti). Ultimo incarico Ambasciatore d’Italia in Iraq. Dal 2018 nel settore privato come consulente geopolitico/geo-economico, risk analysis e business intelligence. Dal Novembre 2018 è fondatore e Presidente della MC Geopolicy srl, società di consulenza nei predetti ambiti e, più recentemente, membro del Board dell’ISPI, e, da ultimo, dell’Advisory Board della Tanto Capital Partners, basata a Londra.
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