Dal Washington Consensus, deriva il deficit democratico da cui non siamo più riusciti ad affrancarci e che conducono alla analisi della situazione attuale.
Come molti sanno, il “Washington Consensus” è una espressione coniata nel 1989 dall’economista J. Williamson che ha sostenuto una serie di strumenti, tra cui stabilità macroeconomica, commercio liberalizzato e privatizzazione, per raggiungere un obiettivo relativamente mirato, ovvero la crescita economica in America Latina.
Intorno a queste proposte, Williamson riteneva che a Washington vi sarebbe stato un accordo di vedute. Il riferimento era Washington in quanto sede sia delle istituzioni politiche statunitensi sia di quelle finanziarie internazionali chiamate a promuovere le riforme individuate da Williamson: investimenti in educazione e infrastrutture, liberalizzazione del commercio e degli investimenti, privatizzazione delle industrie di Stato. Stando alla Treccani, la locuzione finì presto per designare un modello universale di sviluppo, indifferente alle specificità locali e spesso in contrasto con le politiche nazionali, specie se stataliste, modello assunto a base di un accordo di fatto tra le grandi istituzioni economiche internazionali (come Fondo monetario internazionale, OCSE, Banca mondiale) sulle condizioni minime per concedere aiuti ai paesi in difficoltà. Le regole del Washington Consensus sono state applicate nel definire le condizioni per il salvataggio di paesi a rischio default, come la Grecia durante la crisi degli anni 2011-2012 o ancora prima l’Argentina.
La severità di quelle condizioni e la durezza delle relative conseguenze hanno alimentato vivaci critiche al modello ed è stato peraltro evidenziato che un ampio ruolo dello Stato nell’economia non ha impedito a paesi come Corea, Taiwan e soprattutto la Cina con il cd “Beijing consensus” di crescere.
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