Dal 2006 a oggi Israele cerca la soluzione militare definitiva al conflitto con i palestinesi illudendosi di poter spianare le basi della jihad non accorgendosi di alimentare un circolo vizioso.
L’attacco sanguinoso di Hamas contro Israele di sabato 7 ottobre ha prodotto una conseguenza a cascata dopo l’altra, a partire dalla durissima reazione di Tsahal, l’esercito di Tel Aviv, a violenti raid aerei contro la Striscia di Gaza e alla minaccia di un intervento di terra a cui le Israel Defence Force stanno minuziosamente preparandosi.
L’aggressione dei militanti a Israele ha causato uno shock collettivo che può avere, nella sfera occidentale, come unici paragoni l’11 settembre 2001, giorno dell’attentato alle Torri Gemelle, e il 13 novembre 2015, data del fatale attacco al Bataclan di Parigi. Israele, come Francia e Stati Uniti prima di lui, si sveglia scioccata dagli avvenimenti e prepara la reazione. Ma oltre la comprensibile risposta al dolore e la volontà di Tel Aviv di consegnare alla giustizia, umana o (preferibilmente) divina i responsabili degli attacchi, l’assalto di Hamas e la controrisposta israeliana si inseriscono in un contesto di guerra prolungata tra Tel Aviv e i militanti che occupano la Striscia la cui incentivazione si può tramutare in una crisi securitaria di portata regionale.
Questo per almeno tre ordini di motivi: innanzitutto, la necessità di Israele di trovare nella risposta a Hamas una nuova forma di compattezza politica; in secondo luogo, per le conseguenze strategiche dell’illusione di poter risolvere militarmente la questione di Hamas; infine, per la possibile escalation regionale che potrebbe provocare sugli accordi di Abramo. [...]
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