Se Kiev colpisce i suoi Buddha di Bamiyan. E ora l’Europa rischia una Yalta energetica

Mauro Bottarelli

9 Ottobre 2022 - 06:30

L’attacco al ponte fra Russia e Crimea, prima rivendicato e poi negato dall’Ucraina, potrebbe rappresentare la red line da non superare. Mentre l’Ue diverrà ostaggio di un tavolo spartitorio sul gas

Se Kiev colpisce i suoi Buddha di Bamiyan. E ora l’Europa rischia una Yalta energetica

Ci sono silenzi che parlano più di mille parole. E quello che ha accompagnato l’attacco contro il ponte di Kerch, simbolo di unione fra Russia alla Crimea, è stato a dir poco rumoroso. Mosca si è limitata a istituire una commissione ad hoc sull’accaduto e a mobilitare tutte le forze disponibili per far sì che, in poche ore, la viabilità fosse ripristinata sui tronconi non danneggiati. Ma sono stati USA ed Europa a non fiatare.

Delle due, l’una: coda di paglia rispetto a un qualche livello di coinvolgimento nell’accaduto, soprattutto con l’affaire Nord Stream ancora da chiarire oppure presa d’atto del superamento da parte di Kiev del proverbiale punto di non ritorno. E a far propendere per questa seconda ipotesi ci ha pensato l’atteggiamento stesso delle autorità ucraine, protagoniste di un voltafaccia a tempo di record rispetto all’accaduto. In prima battuta una rivendicazione beffarda e orgogliosa con tanto di auguri di buon compleanno a Vladimir Putin e minaccia che questo sia solo l’inizio, seguita dopo poche ore a un’incredibile e goffo tentativo di rovesciare le responsabilità su Mosca.

La quale, quindi, in quindici giorni avrebbe sabotato due proprie infrastrutture chiave, la seconda di enorme valore simbolico quasi in contemporanea con il 70mo genetliaco del presidente. Un po’ troppo da credere. E se le voci di arresti di militari a Mosca e la nomina a responsabile dell’operazione speciale del veterano di Cecenia e Siria, il generale Serghej Surovikin, possono far pensare rispettivamente a una notte dei lunghi coltelli e a una volontà di vendetta sul campo del Cremlino, più di un analista ritiene che Kiev e il suo presidente siano andati fuori controllo.

La sindrome di Frankenstein, il mostro riportato in vita e che si ribella allo scienziato. Un qualcosa che gli USA conoscono molto bene, perché il precedente storico più noto riguardava proprio una guerra proxy contro la Russia: il supporto ai mujaheddin afgani in lotta contro l’Armata Rossa e la sua invasione dell’Afghanistan. Un’alleanza strategica che divenne prodromo alla nascita del regime talebano, il quale fu per questo silenziosamente tollerato dagli Stati Uniti fino a quando, a sua volta, non superò la red line. Ovvero, la distruzione dei Buddah di Baniyan, patrimonio dell’?Unesco e atto che diede il via alla furia iconoclasta dei barbuti studenti coranici.

A quel punto, lista nera. Tanto che. nonostante i sospetti puntassero fino dall’inizio verso un coinvolgimento saudita, Washington scaricò su Kabul le responsabilità dell’11 settembre. E colpì. E che gli USA abbiano registrato da qualche tempo una pericolosa deriva estremista di Volodymir Zelensky lo ha testimoniato lo scoop del New York Times su imbeccata dell’intelligence a stelle e strisce: dietro all’assassinio della figlia del filoso Aleksandr Dugin ci sarebbe il governo ucraino. Fuoco amico. Che chiunque avrebbe interpretato come un invito alla calma. Ma non il numero uno di Kiev, il quale il giorno seguente evocava confusamente, pericolosamente e irresponsabilmente un attacco nucleare preventivo della Nato contro la Russia.

Game over? Non stupirebbe. Soprattutto dopo la messa in guardia di Joe Biden rispetto ai rischi di un armageddon atomico e l’apertura a un negoziato con Mosca del falco Antony Blinken, capo della diplomazia Usa. E un altro segnale è arrivato da qui: dopo lo strano sondaggio lanciato su Twitter rispetto a una cessione di territori da parte dell’Ucraina come soluzione per la pace, Elon Musk è tornato nel mirino. Questa volta per il malfunzionamento del suo Starlink, sistema di collegamento con la Rete gentilmente garantito dal patron di Tesla agli ucraini ma che starebbe registrando continui crash. Tali da pregiudicare la controffensiva sul campo delle forze armate che lo utilizzano per comunicare.

E che, a detta dell’oltranzista repubblica Adam Kinzinger, si configurerebbe come argomento di sicurezza nazionale.

In che senso? Quale tipo di accordo e a quale livello opera da mandato politico per la cessione di Starlink? E quale ruolo, più o meno formale, ricopre Elon Musk nell’affaire ucraino, stante il potere mediatico garantito dal controllo de facto su un mezzo potente come Twitter?

Insomma, Washington potrebbe essere alle soglie di un clamoroso, ennesimo abbandono della creatura destabilizzatrice andata fuori controllo. Come i talebani post-Buddha, appunto. O come l’ISIS dopo gli eccessi da grand guignol teocratico e. soprattutto, l’intervento a difesa di Assad di Russia, Cina ed Hezbollan filo-iraniani. E l’Europa? Alla luce del clamoroso successo russo in sede Opec, tale da spingere proprio gli USA a più miti consigli e all’ipotesi di abbandono di Zelensky per mediare una tregua strategica con Mosca, il silenzio europeo pare dettato da un misto di imbarazzo e paura. Insomma, stante l’oltranzismo della linea Von der Leyen-Borrell al fianco dell’Ucraina, l’UE rischia di andare incontro e divenire vittima predestinata di una Yalta energetica che veda seduti al tavolo dei vincitori non Usa, Unione Sovietica e Gran Bretagna ma Usa, Russia e Cina.

E se i timori della Germania sono stati palesati in maniera fin troppo chiara dalla decisione di rottura unilaterale dell’impasse comunitario e istituzione del mega-fondo di sostegno a famiglie e imprese, atto prodromico allo stallo terminale di Praga che ha fatto perdere totalmente le staffe a Mario Draghi,

ecco che da dalla cronache della stampa arrivano conferme di un inverno post-Gazprom che si preannuncia fin dalle prime battute ben più duro e compromesso del previsto. Se queste immagini della tv all-news francese BFMTV mostrano un ordinario sabato di code e bagarre ai distributori nella cintura parigina e non in aperta campagna,

ecco che la capofila dell’oltranzismo atlantico e anti-russo, la Polonia, pare essere costretta a fare i conti con un’emergenza energetica tale in alcune aree del Paese da implicare roghi di immondizia come strumento per generare calore.

Insomma, l’inaugurazione della Baltic Pipe con la Norvegia non ha sortito miracoli. Quantomeno non a questi prezzi del gas di Oslo sullo spot market.

E l’Italia? Al netto di caro-bollette, piano di restrizioni appena tramutato in decreto e continui annunci di chiusure di attività commerciali cui si unisce la conferma di crescita zero per l’anno prossimo, ecco che l’amministratore delegato di ENI lancia l’allarme:

godetevi l’inverno in arrivo, perché il prossimo sarà potenzialmente peggiore. Perché chiusi i rapporti con Gazprom, l’Europa dovrà fare i conti con un’autosufficienza inesistente, una frantumazione insanabile fra Stati membri e, soprattutto. la prospettiva appunto di una Yalta energetica fra Paesi esportatori che potrebbe generare una spartizione del mercato e un più o meno tacito cartello sui prezzi del gas, oltre che del petrolio dopo la mossa dell’Opec. Insomma, the worst is yet to come.

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