In tre mesi 300 mila persone cambiano lavoro anche se provviste di un contratto a tempo indeterminato. L’origine del fenomeno? Ha anche a che fare con il Covid.
I dati dell’INPS evidenziano che nel primo trimestre del 2022 sono state 306.710 mila le persone che in Italia hanno rassegnato le dimissioni dal lavoro, anche se provviste di un contratto a tempo indeterminato. Il dato non è mai stato così alto negli ultimi 8 anni e si registra un aumento 35% rispetto al 2021.
In realtà questi numeri non arrivano come un fulmine a ciel sereno visti gli innumerevoli studi che si stanno avvicendando sul caso negli ultimi tempi, ma in questo caso i valori aiutano a puntualizzare il percorso professionale di reinserimento che donne, uomini e giovani vivono dopo aver lasciato il proprio ufficio. Altrettanto interessante è capire, in relazione a queste prospettive, cosa spinge le persone a licenziarsi e con che spirito in generale gli italiani inizia a ripensare l’attività lavorativa.
Di certo una grande impronta è stata impressa dall’esperienza del Covid ma non come i detrattori dello smartworking dicono in chiave di nullafacenza e desiderio di improduttività, bensì con un occhio di riguardo alle priorità di vita affettiva e relazionale, al rispetto dei propri ritmi e, più in generale, alla ricerca di una riduzione dello stress che potenzialmente non fa che ottimizzare la performance.
Cosa spinge le persone a dimettersi
Quello delle grandi dimissioni italiane è un fenomeno sociale che dice tanto del rapporto con il lavoro post-pandemia, che non si discosta poi molto dall’approccio americano che vede nella flessibilità un valore e nella Great Resignation una prospettiva di cambio di vita tanto lecito quanto necessario. Il fenomeno nostrano è quindi intriso di consapevolezza da parte dei lavoratori di quanto sia necessario guardare le cose in prospettiva.
Il professore Alessandro De Carlo, psicologo del lavoro e psicoterapeuta intervistato da Vanity Fair ha chiarito così l’approccio di molti professionisti:
«In tanti stanno cominciando o hanno già cominciato a ripensare la propria posizione lavorativa. Fino a poco tempo fa, eravamo più ingessati, oggi il mercato del lavoro è più simile a quello americano. Ciò significa che un cambiamento culturale è in corso».
Il trauma collettivo del Covid ha infatti portato con sé tante nuove consapevolezze e insight. Una su tutte è quella che, nello stop momentaneo, ci ha permesso di ridefinire l’importanza dei propri spazi, delle relazioni interpersonali e di come il riposo sia parte integrante della formula per la produttività ottimale. Per spirito di emulazione poi dal trend iniziale dei primi temerari che hanno ricevuto questa «epifania» ci siamo spostati verso una comprensione pressoché generalizzata di quali siano i problemi maggiori sul posto di lavoro: richiesta di reperibilità costante, basse retribuzioni a fronte di grandi straordinari, ambiente di lavoro stressante e poca disponibilità per curare la vita familiare.
Domina il desiderio di maggiori benefici economici (46%) ma si cerca anche dinamismo con nuove opportunità di carriera (35%). Altri parlano invece di motivi di salute fisica o mentale (24%) o ricerca di flessibilità dell’orario di lavoro (18%). Siamo estremamente lontani dalla politica dei 4 giorni lavorativi, ma di questo passo alcune aziende, pur di trattenere a sé i talenti, potrebbero forse avviare delle sperimentazioni come già accade in vari Paesi d’Europa.
Lasciare il lavoro non è sempre un rischio
Le grandi dimissioni all’italiana non stanno producendo disoccupazione e neppure un alto tasso di riconversione a livello di shift tra i settori; la maggior parte delle persone vuole mantenere il proprio impiego cercando semplicemente prospettive lavorative più vantaggiose. Lo certifica anche Francesco Armillei, assistente di ricerca alla London School of Economics, il primo a lanciare il dibattito in Italia:
«I lavoratori si dimettono, ma rimangono nel mondo del lavoro, non sempre nello stesso settore. Segnale di dinamismo e risveglio a cui l’Italia della crescita allo zero virgola non era abituata».
Dettagliando il quadro troviamo il caso boom del Veneto dove la metà di chi si dimette trova un posto in sette giorni. Il tasso di ricollocazione è quindi molto alto - al 70-80% - nello stesso settore o comparto, soprattutto nell’industria metalmeccanica, nel turismo, nelle costruzioni. Segmentando vediamo che questi valori interessano il 46% degli uomini e il 39% delle donne. Non troppo dissimile il caso dei giovani che sono ricollocati entro i 7 giorni con una media del 44%. Solo i senior trovano difficoltà con il 18% delle possibilità di trovare un nuovo impiego in breve tempo.
La tipologia di contratto è un’altra variabile significativa; chi viene da un contratto tra uno e tre anni nel 47% dei casi si ricolloca subito mentre chi aveva un contratto da meno di un anno si attesa al 40% delle possibilità. Ultimo dato degno di nota, in riferimento alle consapevolezze sulle proprie necessità, è quello che descrive il 30% dei dirigenti e il 27% delle professioni tecniche come soggetti disposti anche a un «downgrading» (ovvero a scendere di livello e stipendio) pur di cambiare.
Le priorità stanno insomma mutando, ma questo sembra essere un parametro incoraggiante più che una spia di allerta.
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