Il licenziamento mascherato è una pratica con la quale il datore di lavoro porta il dipendente a lasciare il lavoro o ne crea indebitamente le condizioni. Vediamone i casi concreti e come opporsi.
Quella del licenziamento è o dovrebbe sempre essere una scelta assunta dal datore di lavoro, perché non in grado di “salvare” in alcun modo il rapporto di lavoro in essere. Attraverso il licenziamento, l’azienda pone fine a un rapporto di lavoro e adotta una decisione che si contrappone a quello che è il recesso unilaterale dal contratto di lavoro da parte del dipendente, che prende il nome di dimissioni.
Ebbene, sono diverse le possibili tipologie di licenziamento previste dalle legge e moltissimi i casi concreti che pongono l’azienda nella situazione di dover licenziare uno o più lavoratori. Di seguito però vogliamo affrontare una specifica ipotesi di recesso, ovvero il cosiddetto licenziamento mascherato e mirato.
Come vedremo meglio più avanti, in questo caso il licenziamento è in qualche modo “indotto” e l’intenzione del datore è dunque quella di spingere il dipendente a fare un passo indietro, attraverso le dimissioni.
Il licenziamento mascherato va oltre quelle che sono le legittime esigenze aziendali, travalicandole e costituendo così un danno per il lavoratore che lo subisce. Perciò come distinguerlo senza sbagliare? Ovvero, quali sono i casi concreti che ne sono manifestazione? E come tutelarsi? Scopriamolo insieme nel corso di questo articolo.
Licenziamento mascherato: di che si tratta? Il caso del trasferimento del lavoratore
Parlare di licenziamento mascherato significa fare riferimento all’istituto del trasferimento del lavoratore o della lavoratrice. Non sempre però gli aspetti legati alla tutela della produzione e/o o alla miglior organizzazione dell’azienda giustificano la scelta di trasferire il proprio dipendente dalla sede di lavoro attuale a una anche molto distante.
Proprio così: ricorda che in non pochi casi pratici il trasferimento equivale a costringere il lavoratore o la lavoratrice a rassegnare le proprie dimissioni o a subire in alternativa e - come provvedimento disciplinare a tutti gli effetti - il licenziamento per aver detto no al trasferimento in una nuova sede di lavoro (molto spesso lontanissima dalla propria residenza e dal luogo dei propri affetti). Sulla carta si tratterebbe di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Ma in situazioni come queste si può parlare di licenziamento mascherato e mirato. In buona sostanza, un modo per costringere il dipendente a dimettersi, perché non intende andare a vivere e lavorare a centinaia di km di distanza - soprattutto in assenza di una motivazione convincente offerta dall’azienda in merito alla scelta. Pensiamo a chi, ad esempio, ha partorito da poco, oppure a chi è caregiver o ancora alle categorie protette: la scelta delle dimissioni potrebbe essere dolorosa, ma consequenziale. Insomma, a farne le spese sarebbe il lavoratore che subisce di fatto un abuso del potere direttivo del datore di lavoro.
Contributo economico per le dimissioni consensuali e licenziamento mascherato
Chiaramente una decisione aziendale come quella appena considerata, non trova giustificazione in alcuna norma di legge, se non è attuata per una chiusura o per problemi organizzativi oggettivi e dimostrabili - se del caso anche in corso di causa.
Fai attenzione anche a questo aspetto: di licenziamento mascherato si tratta altresì nel caso in cui l’azienda offra ai lavoratori interessati un contributo economico in cambio delle dimissioni consensuali. Ovvero una situazione in cui non pochi dipendenti risponderebbero sicuramente di no.
Licenziamento mascherato e ragioni economico-organizzative del datore di lavoro
Analogamente di licenziamento mascherato si tratta nel caso in cui le esigenze organizzative del datore di lavoro non siano sufficienti a giustificare e coprire un recesso mirato e del tutto discrezionale, magari legato a una nascosta antipatia o a differenze caratteriali tra datore e dipendente.
Si tratta di quei casi di soppressione del rapporto di lavoro in essere o di riduzione del personale aziendale, che però debbono essere adeguatamente giustificati - e non sempre è così.
Ecco allora che è facile immaginare che le controversie in tema di licenziamento mascherato non manchino, anzi sarà eventuale compito del giudice del lavoro verificare se davvero la riduzione dei costi o l’incremento della produttività giustifichino il licenziamento. I margini per un ricorso in tribunale ci sono tutti.
L’onere della prova gravante sul datore di lavoro e il rischio di licenziamento mascherato
Considerato che il licenziamento è un provvedimento estremo, il datore di lavoro dovrà rispettare un onere probatorio ulteriore rispetto alla prova delle ragioni economico-organizzative. Egli infatti deve o dovrebbe provare l’impossibilità di ricollocare il suo lavoratore all’interno dell’organizzazione aziendale. Insomma, il lavoratore subordinato il cui posto sia stato soppresso deve tendenzialmente essere assegnato a mansioni equivalenti, ovvero differenti ma facenti parte dell’inquadramento contrattuale a lui riferito. Altrimenti il rischio di licenziamento mascherato c’è.
Inoltre, tieni presente che nel caso in cui nell’organizzazione aziendale non siano disponibili mansioni equivalenti, al dipendente potranno essere assegnate anche mansioni inferiori al suo livello di inquadramento. E ciò per il semplice fatto che il demansionamento è un’alternativa migliore rispetto al licenziamento, ed è chiara la preferibilità di un demansionamento rispetto alla disoccupazione.
In casi come questo si parla infatti di demansionamento conservativo, un istituto previsto e regolato dalle norme di legge in materia.
Opporsi al trasferimento e alla non ricollocazione in altre mansioni del lavoratore: ecco come fare
Abbiamo detto sopra che la scelta del trasferimento da parte dell’azienda può rappresentare una sorta di anticamera del licenziamento del lavoratore che si oppone. Ma come fare a contestare un trasferimento che appare ingiustificato ed evitare così il licenziamento mascherato? Anzitutto tieni conto che la legge indica un periodo congruo di preavviso da parte dell’azienda, e in molti casi sarà ogni singolo Ccnl a disporre lo specifico numero di giorni di preavviso.
Al fine di evitare il trasferimento, il lavoratore farà bene a chiedere all’azienda le motivazioni che sono alla base del trasferimento. Perciò se non ti è chiaro il perché del trasferimento, sarai libero di chiedere chiarimenti all’azienda, che dovrà darteli in modo dettagliato.
Se ciò non risulta sufficiente, il lavoratore o la lavoratrice dovranno manifestare opposizione, meglio sarebbe con l’assistenza di un sindacato, all’interno del periodo di preavviso, cercando ovviamente di trovare una soluzione nel confronto tra le parti. Anzi la via della mediazione tramite sindacato è una strada praticamente obbligata, se si vuole evitare di finire in una causa di lavoro. Altrimenti non resta che predisporre quanto prima il ricorso presso il tribunale territorialmente competente, al fine di accorciare il più possibile i tempi della sentenza sulla fondatezza del trasferimento.
In tribunale l’azienda dovrà dimostrare non soltanto l’esubero in rapporto a uno specifico posto di lavoro, ma anche la necessità di avvalersi delle capacità tecnico-professionali di quel dipendente nel posto in cui viene trasferito. Al contempo, il datore deve provare di non avere a disposizione altri posti di lavoro più vicini alla residenza del lavoratore e perciò meno penalizzanti per la vita privata di quest’ultimo.
Considerazioni non dissimili valgono per la non ricollocazione in altre mansioni onde evitare il licenziamento: laddove non fosse sufficiente l’assistenza del sindacato, per il lavoratore si aprirebbero inevitabilmente le porte del ricorso presso il giudice del lavoro, per acclarare l’effettiva situazione e conservare il posto di lavoro, minacciato da un possibile licenziamento mascherato e infondato.
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