È il più grande rialzo dell’anno, generato dalle mosse di Donald Trump. Eppure resta un fattore di rischio da non sottovalutare assolutamente.
Il ritorno di Donald Trump al centro del dibattito economico ha scatenato nuove riflessioni tra analisti, investitori e osservatori dei mercati finanziari. Dopo aver posticipato di 90 giorni l’introduzione dei nuovi dazi (esclusa la Cina), l’ex presidente ha esordito con una dichiarazione tanto provocatoria quanto strategica: «Era solo questione di tempo, i dazi non hanno causato il crollo dei mercati».
Un’affermazione forte, nello stile a cui ci ha abituati, ma che merita di essere analizzata a fondo.
Dietro queste parole, infatti, si cela una questione fondamentale.
Quello che abbiamo visto finora è solo speculazione o esiste una falla economica profonda che potrebbe far ripiombare i mercati nel rosso?
Trump e mercati: davvero non c’è correlazione?
Per capire se i ribassi sono davvero finiti, dobbiamo partire da una domanda cruciale: esiste ancora un nesso tra le parole di Trump e l’andamento dei mercati?
Torniamo indietro a novembre 2024, quando Trump ha vinto le presidenziali. L’effetto iniziale fu un rally poderoso: Wall Street ha festeggiato, spinta dalla prospettiva di stimoli fiscali e deregulation. Tuttavia, con le prime minacce tariffarie a dicembre, l’euforia si è trasformata in cautela.
A gennaio, durante l’Inauguration Day, l’S&P 500 ha provato a rompere i massimi, in quella che oggi possiamo considerare una “bull trap”, un classico segnale di inversione. Da lì, l’inizio della trade war a febbraio ha dato il via a una discesa costante, culminata con il Liberation Day, quando l’S&P è crollato di oltre il 10% in due giorni.
Poi, all’improvviso, il cambio di rotta: Trump annuncia una posticipazione dei dazi (tranne che per la Cina), e l’indice recupera quasi tutto, segnando un +10% in una sola sessione.
Questo movimento a V dimostra che le mosse di Trump influenzano i mercati. Negarlo significa ignorare l’impatto politico sui flussi finanziari.
2. Il mercato era malato: il crollo era inevitabile?
Ma davvero il crollo dei mercati non è stato causato dai dazi, ma solo anticipato da essi, come sostenuto da Trump? Il mercato, quindi, era già «malato»?
Guardando ai fondamentali, prima del crollo, il rapporto P/E si trovava sopra il 91° percentile storico. Le attese sugli utili (circa +15% secondo FactSet) erano buone, ma non tali da giustificare valutazioni così elevate.
Possiamo quindi parlare di un mercato sopravvalutato, alimentato da anni di politiche espansive e da un diffuso ottimismo eccessivo.
In quest’ottica, l’intervento di Trump ha agito come un catalizzatore: una correzione tecnica, forse davvero necessaria, che ha riportato i multipli su livelli più sani.
Guardando invece al contesto macroeconomico, è interessante notare come – nonostante il PIL statunitense resti su valori positivi – già prima dell’introduzione dei dazi il GDPNow della Fed di Atlanta avesse iniziato a segnalare un crollo della produttività negli Stati Uniti.
Parallelamente, sebbene le tensioni commerciali abbiano aggravato il quadro, rimane il nodo dei tassi della Fed, ancora ai massimi da decenni: un fattore di rischio passato in secondo piano nel dibattito politico, ma che continua a minacciare la sostenibilità del debito pubblico e privato americano.
Insomma, se è vero che i mercati sembrano seguire le dichiarazioni di Trump, è altrettanto vero che l’economia USA, da un punto di vista prospettico, non appare così robusta come i bilanci aziendali e le proiezioni sugli utili lascerebbero intendere.
3. Incertezza politica ai massimi storici
Un dato chiave riguarda l’indice di incertezza politica globale, che ha superato perfino i livelli toccati durante il Covid.
Nel 2020 il mondo era in pieno blocco, ma oggi la percezione del rischio è ancora più alta.
Questo ci dice che non stiamo vivendo una semplice correzione, ma una fase di instabilità strutturale.
Il pericolo è una lunga fase senza direzione, fatta di volatilità, improvvise inversioni, e uscite dai mercati da parte degli investitori istituzionali.
4. La fine dei dazi è una garanzia?
No, assolutamente no.
Il rinvio dei dazi non equivale alla loro cancellazione. La Cina resta esclusa dal rinvio, e questo lascia il quadro incerto.
Allo stesso modo, il fatto che le oscillazioni di mercato siano scandite e dettate da una singola figura politica non sono un segnale positivo. I grandi fondi hanno bisogno di stabilità. Un mercato che passa dal panico all’euforia in pochi giorni è più simile a un mercato emergente che a quello di una superpotenza.
Queste fluttuazioni creano insicurezza, carenza di domanda strutturale, e rischi di stagnazione. La fiducia viene minata, e i flussi si spostano verso asset più difensivi. Ed è questo il vero rischio dell’attività che sta portando avanti Trump con i mercati, perché quando manca la fiducia, non bastano EPS in crescita e GDP a CAGR positivi, il mercato resta laterale. Caratteristica tipica dei cosidetti «decenni persi», decenni in cui il tasso di crescita del PIL aveva CAGR addirittura superiori a quelli attuali, ma comunque i mercati non crescevano, a causa di incertezza e carenza di fiducia.
I crolli sono davvero finiti?
È sbagliato cantare vittoria troppo presto.
Il mercato ha reagito positivamente al rinvio dei dazi, ma il contesto resta fragile.
La correlazione tra politica e finanza è fortissima. E bastano poche parole per muovere i mercati.
Siamo in una fase dove la psicologia conta più della razionalità.
I fondamentali sono migliorati? Forse. Ma l’instabilità politica resta.
Il mercato ha trovato un equilibrio momentaneo, ma potrebbe essere solo una pausa prima di una nuova fase ribassista.
E in un contesto simile, l’unica certezza è che l’incertezza continuerà a dominare i giochi.
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