Ma davvero il crollo del mercato è finito? Attenzione a questo fattore

Tommaso Scarpellini

11 Aprile 2025 - 07:49

È il più grande rialzo dell’anno, generato dalle mosse di Donald Trump. Eppure resta un fattore di rischio da non sottovalutare assolutamente.

Ma davvero il crollo del mercato è finito? Attenzione a questo fattore

Il ritorno di Donald Trump al centro del dibattito economico ha scatenato nuove riflessioni tra analisti, investitori e osservatori dei mercati finanziari. Dopo aver posticipato di 90 giorni l’introduzione dei nuovi dazi (esclusa la Cina), l’ex presidente ha esordito con una dichiarazione tanto provocatoria quanto strategica: «Era solo questione di tempo, i dazi non hanno causato il crollo dei mercati».

Un’affermazione forte, nello stile a cui ci ha abituati, ma che merita di essere analizzata a fondo.
Dietro queste parole, infatti, si cela una questione fondamentale.

Quello che abbiamo visto finora è solo speculazione o esiste una falla economica profonda che potrebbe far ripiombare i mercati nel rosso?

Trump e mercati: davvero non c’è correlazione?

Per capire se i ribassi sono davvero finiti, dobbiamo partire da una domanda cruciale: esiste ancora un nesso tra le parole di Trump e l’andamento dei mercati?

Torniamo indietro a novembre 2024, quando Trump ha vinto le presidenziali. L’effetto iniziale fu un rally poderoso: Wall Street ha festeggiato, spinta dalla prospettiva di stimoli fiscali e deregulation. Tuttavia, con le prime minacce tariffarie a dicembre, l’euforia si è trasformata in cautela.

A gennaio, durante l’Inauguration Day, l’S&P 500 ha provato a rompere i massimi, in quella che oggi possiamo considerare una “bull trap”, un classico segnale di inversione. Da lì, l’inizio della trade war a febbraio ha dato il via a una discesa costante, culminata con il Liberation Day, quando l’S&P è crollato di oltre il 10% in due giorni.

Poi, all’improvviso, il cambio di rotta: Trump annuncia una posticipazione dei dazi (tranne che per la Cina), e l’indice recupera quasi tutto, segnando un +10% in una sola sessione.
Questo movimento a V dimostra che le mosse di Trump influenzano i mercati. Negarlo significa ignorare l’impatto politico sui flussi finanziari.

2. Il mercato era malato: il crollo era inevitabile?

Ma davvero il crollo dei mercati non è stato causato dai dazi, ma solo anticipato da essi, come sostenuto da Trump? Il mercato, quindi, era già «malato»?

Guardando ai fondamentali, prima del crollo, il rapporto P/E si trovava sopra il 91° percentile storico. Le attese sugli utili (circa +15% secondo FactSet) erano buone, ma non tali da giustificare valutazioni così elevate.
Possiamo quindi parlare di un mercato sopravvalutato, alimentato da anni di politiche espansive e da un diffuso ottimismo eccessivo.

In quest’ottica, l’intervento di Trump ha agito come un catalizzatore: una correzione tecnica, forse davvero necessaria, che ha riportato i multipli su livelli più sani.

Guardando invece al contesto macroeconomico, è interessante notare come – nonostante il PIL statunitense resti su valori positivi – già prima dell’introduzione dei dazi il GDPNow della Fed di Atlanta avesse iniziato a segnalare un crollo della produttività negli Stati Uniti.

Parallelamente, sebbene le tensioni commerciali abbiano aggravato il quadro, rimane il nodo dei tassi della Fed, ancora ai massimi da decenni: un fattore di rischio passato in secondo piano nel dibattito politico, ma che continua a minacciare la sostenibilità del debito pubblico e privato americano.

Insomma, se è vero che i mercati sembrano seguire le dichiarazioni di Trump, è altrettanto vero che l’economia USA, da un punto di vista prospettico, non appare così robusta come i bilanci aziendali e le proiezioni sugli utili lascerebbero intendere.

3. Incertezza politica ai massimi storici

Un dato chiave riguarda l’indice di incertezza politica globale, che ha superato perfino i livelli toccati durante il Covid.
Nel 2020 il mondo era in pieno blocco, ma oggi la percezione del rischio è ancora più alta.
Questo ci dice che non stiamo vivendo una semplice correzione, ma una fase di instabilità strutturale.

Il pericolo è una lunga fase senza direzione, fatta di volatilità, improvvise inversioni, e uscite dai mercati da parte degli investitori istituzionali.

4. La fine dei dazi è una garanzia?

No, assolutamente no.
Il rinvio dei dazi non equivale alla loro cancellazione. La Cina resta esclusa dal rinvio, e questo lascia il quadro incerto.
Allo stesso modo, il fatto che le oscillazioni di mercato siano scandite e dettate da una singola figura politica non sono un segnale positivo. I grandi fondi hanno bisogno di stabilità. Un mercato che passa dal panico all’euforia in pochi giorni è più simile a un mercato emergente che a quello di una superpotenza.

Queste fluttuazioni creano insicurezza, carenza di domanda strutturale, e rischi di stagnazione. La fiducia viene minata, e i flussi si spostano verso asset più difensivi. Ed è questo il vero rischio dell’attività che sta portando avanti Trump con i mercati, perché quando manca la fiducia, non bastano EPS in crescita e GDP a CAGR positivi, il mercato resta laterale. Caratteristica tipica dei cosidetti «decenni persi», decenni in cui il tasso di crescita del PIL aveva CAGR addirittura superiori a quelli attuali, ma comunque i mercati non crescevano, a causa di incertezza e carenza di fiducia.

I crolli sono davvero finiti?

È sbagliato cantare vittoria troppo presto.
Il mercato ha reagito positivamente al rinvio dei dazi, ma il contesto resta fragile.
La correlazione tra politica e finanza è fortissima. E bastano poche parole per muovere i mercati.

Siamo in una fase dove la psicologia conta più della razionalità.
I fondamentali sono migliorati? Forse. Ma l’instabilità politica resta.
Il mercato ha trovato un equilibrio momentaneo, ma potrebbe essere solo una pausa prima di una nuova fase ribassista.

E in un contesto simile, l’unica certezza è che l’incertezza continuerà a dominare i giochi.

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