Le contraddizioni del Golden Power, tra intervento statale, capitali esteri e controllo delle imprese strategiche: un’analisi della disciplina e delle sue implicazioni.
E’ nei momenti di crisi violenta che gli Stati cercano di avere una presa maggiore sull’economia, e l’Italia non ha fatto eccezione: risale al 2011, nel pieno della crisi dell’Eurozona, la decisione del Tesoro di costituire il Fondo Strategico Italiano, così come è del 2012 quella di dotare Palazzo Chigi di poteri di veto nel caso di operazioni societarie con partner stranieri che appaiono contrari agli interessi fondamentali dell’Italia, istituendo quello che oggi viene correntemente denominato “Golden power”.
Si è generalizzata così, poi estendendola nel 2021, un’azione di verifica e di potenziale blocco di operazioni societarie di rilievo per gli interessi nazionali che in precedenza si applicava alle sole imprese pubbliche che erano state via via privatizzate, ed in cui il Tesoro continuava a detenere una partecipazione azionaria simbolica che però valeva oro: si trattava della “Golden Share”, della detenzione di una azione speciale, che valeva in termini di potere di interdizione quanto prima spettava allo Stato che deteneva la maggioranza del capitale in una serie di imprese.
Bisogna infatti risalire indietro nel tempo, a quando le normative di settore prevedevano che, ad esempio nelle telecomunicazioni, il Concessionario avente l’esclusiva del pubblico servizio di telecomunicazioni, radiotelevisivo e postale, doveva essere comunque di proprietà pubblica almeno per la maggioranza azionaria: così era per la Sip, poi divenuta Telecom Italia, che pure era quotata in Borsa; come per la Rai. Lo stesso valeva per le Poste Italiane, dapprima trasformate da Azienda di Stato in Ente pubblico economico e poi in Società per azioni totalmente in mano al Tesoro, e poi quotata in Borsa cedendone quote di minoranza ai privati. [...]
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