Tra esondazioni e siccità, l’Italia vive in un continuo scontro tra gestione fallimentare del territorio e soluzioni temporanee. La vera sfida è la visione d’insieme. Il caso Sicilia.
Non serve a niente affermare che è tutta colpa dei cambiamenti climatici, che ci dobbiamo abituare ad eventi calamitosi estremi passando dalle piogge torrenziali alla siccità estrema, e che solo la decarbonizzazione dell’economia si combatte solo riducendo le emissioni di CO2 di origine antropica: è solo un modo per guardare una metà della realtà, quella del mondo animale di cui l’uomo è la specie più dannosa per l’ambiente, mentre si trascura il mondo vegetale che è la vita del territorio. Altrimenti è tutto un deserto.
Se il territorio ha bisogno di cura nel suo complesso, l’agricoltura è solo una delle attività che incidono sulla sua gestione complessiva: nella Pianura padana, ad esempio, i fiumi non scorrono in alvei naturali profondi, scavati nella roccia come in Sicilia, ma vengono regimati dall’uomo con sponde di terra che se non vengono costantemente ed adeguatamente manutenute non resistono alla furia delle acque. Servono bacini irrigui, ma soprattutto canali scolmatori ed aree golenali, destinate ad essere allagate con le acque che non riescono ad essere smaltite all’interno dell’alveo dei fiumi.
La desertificazione del territorio, per via dell’abbandono dell’attività agricola da parte dei piccoli produttori, comporta conseguenze pesantemente negative per il territorio: il venir meno di una adeguata copertura vegetale, ed il mancato impianto di alberature boschive sostitutive, da una parte riduce l’assorbimento di CO2 e l’emissione di ossigeno, e dall’altra produce una erosione del terreno ed il trasporto a valle della componente fertile. A quel punto, se rimane solo la roccia nuda, anche un rimboschimento diviene estremamente difficoltoso: il degrado si è fatto praticamente irreversibile.
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