Pensioni: che succede se il governo non avrà i soldi per la riforma?

Simone Micocci

07/10/2022

Giorgia Meloni dovrà dare importanti risposte a chi attende novità sul fronte riforma delle pensioni. Ma cosa succederà qualora le risorse a disposizione dovessero essere limitate?

Pensioni: che succede se il governo non avrà i soldi per la riforma?

Il governo Meloni potrebbe non avere i soldi per procedere con la riforma delle pensioni.

Va detto che questo è un tema alquanto sfortunato. Già nel secondo governo Monti, con il ministero del Lavoro guidato da Nunzia Catalfo, era stato avviato un confronto su nuove misure di flessibilità salvo poi interrompersi a causa della pandemia. Lo stesso è successo per il governo Draghi, il quale aveva promesso una riforma delle pensioni nel 2023 salvo poi fare un passo indietro con lo scoppio della guerra in Ucraina. Discorso che si è definitivamente archiviato con la crisi di governo.

Adesso sarà il governo Meloni a decidere cosa fare delle pensioni, con la leader di Fratelli d’Italia che dovrà fare i conti con le richieste di Matteo Salvini che sulla riforma delle pensioni e sulla cancellazione della legge Fornero ha avuto molto da dire in campagna elettorale.

Fermo restando che la riforma del 2011 non verrà toccata, anche perché per il momento non sembra esserci la possibilità di farlo, il governo Meloni dovrà decidere se introdurre nuove forme di flessibilità, o comunque di confermare quelle già esistenti.

Senza risorse da destinare alle pensioni, però, sarà molto complicato trovare la quadra, ragion per cui c’è chi comincia a guardare preoccupato al 2023 temendo che possa esserci un ritorno integrale alla legge Fornero.

Che succede se il governo Meloni non avrà le risorse per la riforma delle pensioni

Nella peggiore delle ipotesi, ossia qualora nella legge di Bilancio 2023 non dovessero esserci sufficienti risorse da destinare alla riforma delle pensioni, tutto resterà com’è oggi.

Per andare in pensione, salvo casi particolari, bisognerà quindi soddisfare i seguenti requisiti:

  • 67 anni di età e 20 anni di contributi per la pensione di vecchiaia, 71 anni di età e 5 di contributi per la relativa opzione riservata ai contributivi puri;
  • 42 anni e 10 mesi di contributi, un anno in meno per le donne, per la pensione anticipata, oppure 64 anni di età, 20 anni di contributi e un assegno pari o superiore a 2,8 volte l’importo dell’assegno sociale nel caso dell’opzione contributiva;
  • 41 anni di contributi per i lavoratori precoci che rientrano nelle categorie descritte da quota 41.

Tutto, quindi, resterebbe così com’è anche perché è stato scongiurato l’aumento dei requisiti per il pensionamento come previsto dalla riforma Fornero. Non ci sarà, infatti, l’adeguamento con le aspettative di vita, visto che non è stato rilevato un aumento delle stesse (anzi, causa Covid le aspettative di vita sono persino scese nell’ultimo periodo).

Perché si parla di ritorno integrale alla legge Fornero?

Il problema è che ci sono tre misure in scadenza che fino a oggi hanno contribuito a rendere più flessibile l’accesso alla pensione, derogando - laddove se ne soddisfino le condizioni - a quanto stabilito dalla riforma del 2011.

Si tratta dell’Ape sociale, l’anticipo pensionistico che al compimento dei 63 anni consente di smettere di lavorare qualora siano stati maturati 30 anni di contributi (36 nel caso dei lavoratori usuranti) e si faccia parte di una tra le seguenti categorie:

  • disoccupati;
  • invalidi almeno al 74%;
  • caregiver;
  • addetti a lavori usuranti.

L’Ape sociale è servita a tutelare le categorie dei fragili, riconoscendo loro una strada alternativa, e più agevole, per il pensionamento. Tuttavia, tale misura è in scadenza al 31 dicembre 2022 e senza una proroga smetterà di esistere dal prossimo anno.

Lo stesso vale per Quota 102, misura con la quale si va in pensione con 64 anni di età e 38 anni di contributi. Introdotta come transazione vista la fine di Quota 100, anche per questa la scadenza è fissata al 31 dicembre prossimo e sarà il governo Meloni a decidere il da farsi.

Discorso a parte per Opzione Donna, per la quale più che di proroga si dovrebbe parlare di estensione della platea. Oggi, infatti, vi possono accedere solo coloro che ne hanno maturato i requisiti - 58 anni di età, uno in più per le autonome, e 35 anni di contributi - entro la data del 31 dicembre 2021. Da mesi c’è pressione affinché il suddetto termine possa essere portato almeno fino al 31 dicembre 2022 e a riguardo arriverà sicuramente una risposta nelle prossime settimane.

Cosa potrebbe succedere quindi?

Al netto degli allarmi lanciati in queste settimane da diversi organi di stampa, sembra essere molto complicato pensare a un governo Meloni che non rinnoverà le suddette misure, sulle quali tra l’altro era già arrivato il placet di Mario Draghi.

Specialmente per l’Ape Sociale e Opzione Donna non dovrebbero esserci problemi, se non altro per le poche risorse richieste per la loro conferma, mentre maggiori dubbi ci sono per Quota 102 per la quale però potrebbe essere introdotto un sistema di ricalcolo contributivo.

Per il resto, in legge di Bilancio 2023 lo spazio, poco, riservato alle pensioni sarà perlopiù occupato da quei 5 miliardi di euro richiesti per procedere con la rivalutazione delle pensioni che, secondo le ultime previsioni Istat, potrebbe essere pari all’8%.

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