La politica economica di Trump è l’azione più di sinistra vista in occidente in questo secolo. Tuttavia neanche i suoi elettori sono davvero pronti a seguirlo e la politica dei dazi avrà vita breve
Donald Trump alla fine ha annunciato i suoi dazi, ampiamente preannunciati in campagna elettorale, e il mondo sembra essere sull’orlo del caos con le borse mondiali a picco sulla base di aspettative di crisi e fallimenti a catena in tutti i Paesi coinvolti, ovvero in gran parte del mondo.
Effettivamente questa mossa rappresenta un vero e proprio shock economico, con la presunta aggravante di essere stata messa in atto in modo deliberato in un momento in cui, apparentemente, non c’era motivo di farla. Infatti l’economia americana in generale non è in particolare sofferenza e le Borse erano sui massimi prima dell’annuncio e, per quanto diversi indicatori segnalassero già da mesi un eccesso di esuberanza sui mercati, il crollo di questi giorni passerà alla storia come causato dall’introduzione dei dazi di Trump.
Quindi, perché l’ha fatto?
Nella visione di Trump il grande problema degli USA è lo sbilanciamento delle partite correnti: ovvero gli Stati Uniti importano molto più di quanto esportino, strutturalmente.
Questo tipo di situazione, unica al mondo e peculiare degli USA grazie al ruolo di scambio e riserva internazionale del dollaro, ha effetti positivi e negativi. Il maggiore effetto positivo: gli americani nel loro complesso possono consumare senza lavorare, dato che di fatto importano merci acquistate semplicemente «stampando» dollari nella misura in cui le economie esportatrici sono disposte a prenderne in cambio di merce.
Da consumatori (infatti sono i primi della classe in questa peculiare disciplina) è un vero e proprio paradiso, d’altro canto l’effetto nel tempo di questo stato delle cose è che la produzione interna di qualsiasi prodotto diventa insostenibile e semplicemente cessa di esistere, con conseguente la perdita di posti di lavoro nell’industria e nell’agricoltura e pressione al ribasso sui salari per i lavori che possono essere svolti, a minor prezzo, anche da qualcuno all’estero, magari nel terzo mondo.
Cosa otteniamo quindi? Un paese ricco, in grado di pagare «in cambiali» qualsiasi cosa voglia per decenni, e una società molto diseguale tra la fascia che beneficia di questo stato delle cose (settore finanziario e colletti bianchi in generale) e tutto il resto, con una classe media che va via via a sparire. Lo vediamo succedere anche da noi (non a caso l’idea dell’Euro è competere col dollaro come riserva) ma negli USA la situazione è estrema come dimostra, tra le altre cose, l’enorme diffusione delle anfetamine nella popolazione più povera, una droga della disperazione a basso costo che spazza via definitivamente milioni di vite. Anche quella del fentanyl, non a caso, è un’altra battaglia di Trump.
Lo scenario appena descritto spiega quindi la posizione di Trump, soprattutto se pensiamo al suo elettorato e alle promesse che a questo ha fatto: Make America Great Again, ovvero reindustrializzarla, riportare il lavoro in casa e la dignità sociale alla classe media del Paese.
I dazi servono proprio a questo, sono come freni di emergenza per la locomotiva della globalizzazione, e se anche gli indicatori economici principali non segnalavano una situazione di crisi è chiaro che alla luce di un altro tipo di analisi la situazione fosse già più che insostenibile e il malessere di una parte consistente degli americani tangibile. Non solo: in anni in cui torna ad essere un tema la possibilità di tornare a guerre di ampia scala gli Stati Uniti si sono ritrovati ad avere un’industria bellica che per quanto ben pagata non ha resistito alla tentazione di massimizzare i margini spostando a sua volta produzioni strategiche all’estero!
Così le armi americane dipendono da componenti di fabbricazione cinese... va da sé che una guerra alla Cina non possa neanche essere pensata con questi presupposti e non agire significherebbe a un certo punto, e in modo incruento, arrivare ad avere un mondo in cui la prima potenza non sono più gli USA e dove magari il ruolo del dollaro venga a quel punto messo in discussione e tolto di mezzo senza che ci sia una reale minaccia militare a dissuadere il resto del mondo.
Messa in questa prospettiva la decisione di Trump appare lungimirante se non semplicemente concreta e realistica: la globalizzazione è stata una bella vacanza per l’America ma l’ha resa grassa e indolente, con forti squilibri del «metabolismo» interno, rendendo al contempo gli «schiavi» disposti a lavorare per un tozzo di pane (o meglio dei banali pezzi di carta) forti e ricchi, quindi via via meno disponibili a continuare a servire il «padrone».
Ecco quindi perché i dazi di Trump si possono definire una mossa «di sinistra»: come sabbia negli ingranaggi della globalizzazione renderanno più oneroso importare e di riflesso più vantaggioso produrre internamente, creando nuova domanda nel mercato del lavoro per mansioni anche poco qualificate che andavano sparendo nell’industria e nell’agricoltura. Al contempo la chiusura delle economie renderà più difficile il gigantismo delle aziende dando più spazio all’impresa settoriale e diffusa, diffondendo ricchezza a livello della classe media e quindi diminuendo ulteriormente le disuguaglianze economiche.
Purtroppo, però, questo scenario rischia seriamente di non realizzarsi davvero per un problema gigantesco: il tempo.
Gli effetti benefici infatti non sarebbero immediati ma necessiterebbero di tempo per realizzarsi. Soprattutto la nascita di nuove imprese interne necessita in primo luogo di una ragionevole certezza che la politica dei dazi sia qui per restare e per quanto il mandato di Trump sia solo all’inizio quattro anni non sono sufficienti a sviluppare del tutto gli effetti benefici.
Nel frattempo tenere la barra dritta su questa politica sarà difficilissimo a livello di consenso: gli stessi cittadini che contano su Trump perché migliori le loro condizioni economiche nell’immediato avranno un enorme problema, ovvero la salita dei prezzi! Questo rischia di trasformarsi in un boomerang a livello di consenso che rischia di far cadere in breve tempo tutto l’impianto della politica economica di Trump, ed è un peccato perché è esattamente il tipo di «reset» di cui le economie occidentali avrebbero bisogno.
Il problema di fondo è che per ottenere una società più egualitaria e giusta è comunque richiesto sacrificio. Che ci piaccia o meno sentircelo dire, in occidente abbiamo per decenni vissuto sulle spalle di altri popoli nel mondo che hanno lavorato (e tutt’ora lavorano, in molti casi) a condizioni disumane, compensando le perdite di posti di lavoro con l’accesso a beni di consumo disponibili in abbondanza e a prezzi molto bassi. Il sacrificio di diverse generazioni di questi popoli, cinesi in primis, sta consentendo oggi di costruire un presente e un futuro di leadership economica, politica e culturale per queste nuove nazioni. Al contempo noi abbiamo popolazioni sempre più vecchie con i pochi giovani molto avvezzi al consumo e poco al lavoro (figuriamoci alla guerra sul campo!).
Mettere la testa sotto la sabbia non risolverà nessun problema, eppure l’occidente non ha fatto altro dall’inizio di questo secolo. Il tentativo di Trump di invertire la tendenza e spingere gli USA verso un nuovo ciclo di industrializzazione probabilmente fallirà, tuttavia era ed è giusto provarci.
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