Il piano di Trump per prendere la Groenlandia

Maria Paola Pizzonia

13 Aprile 2025 - 09:45

Dalla retorica politica ai piani tech: tra sogni coloniali e libertà digitali, il sogno (non così segreto) di Trump sulla Groenlandia.

Il piano di Trump per prendere la Groenlandia

La scena che state per leggere potrebbe sembrare surreale, e invece è finita sulle colonne del New York Times: gli Stati Uniti hanno un piano formale per “prendere” la Groenlandia. Non si tratta, almeno per ora, di un’occupazione militare o di un colpo di mano diplomatico. Ma di qualcosa di più sottile: una strategia di persuasione e pressione geopolitica che punta a sedurre la popolazione locale con campagne social e narrative ad hoc. Comunque, l’idea non è nuova. Era già stata lanciata da Donald Trump nel 2019 tra ironie e sconcerto internazionale. Ma oggi, mentre la sua figura politica torna a farsi centrale, il progetto si sarebbe trasformato in una vera e propria operazione d’influenza.

Inquietanti spot, influencers, ed enormi dubbi sulle libertà digitali

A farlo intendere è lo stesso ex presidente, che in un recente discorso ha dichiarato:

Abbiamo bisogno della Groenlandia per la sicurezza nazionale e internazionale. Stiamo lavorando con tutte le parti coinvolte per cercare di ottenerla. In un modo o nell’altro, lo otterremo.

Il riferimento non è solo strategico o militare, ma anche (e, soprattutto) economico. Sull’isola artica si concentrano ricchissime risorse, importantissime rotte e tensioni globali. L’Artico è ad oggi sempre più contendibile tra Russia, Cina e USA. Ma la novità, qui, sta nell’approccio. Il piano, trapelato alla stampa, punta infatti a conquistare l’opinione pubblica groenlandese tramite pubblicità mirate e strategie social. Una forma di “soft power 2.0” che tenta di vendere agli abitanti dell’isola (poco più di 57.000 persone) l’idea di un futuro americano, magari condito di libertà imprenditoriale e investimenti hi-tech.

Proprio in questa direzione va l’indiscrezione raccolta da Reuters: il team di Trump, con il supporto di alcuni investitori della Silicon Valley, starebbe progettando di trasformare la Groenlandia in una “freedom city”. Un hub ipertecnologico e deregolamentato per intelligenza artificiale, veicoli autonomi, lanci spaziali, microreattori nucleari. Il sogno? Un paradiso fiscale per i “tech bros”, dove sperimentare fuori dai vincoli normativi. L’ambasciatore incaricato in Danimarca da Trump, Ken Howery, sarebbe già al lavoro per negoziare (o almeno promuovere) questa sorta di utopia neoliberale. Un’idea che, secondo le fonti, potrebbe affascinare anche (ovviamente) Elon Musk, già proiettato nella costruzione di città “post-terrestri”.

Ma c’è un problema: i groenlandesi non sono in vendita!

Il problema (anche se nessuno sembra notarlo) resta, ed è politico. A vincere le ultime elezioni è stato il partito Demokraatit, che è favorevole sì a una maggiore autonomia, ma ben lontano da qualsiasi progetto di annessione. Il sostegno popolare a una simile operazione ad oggi è praticamente nullo, e anche se sembra ovvio, è meglio ribadire che la Groenlandia appartiene al suo popolo. Trump non può disporne come vuole, semplicemente.

Eppure, l’amministrazione Trump sembra determinata, anche a costo di forzare gli equilibri interni. Ne è esempio il recente licenziamento della comandante della base militare Usa in Groenlandia, Susannah Meyers, colpevole di aver preso le distanze dalle dichiarazioni aggressive del vicepresidente JD Vance contro la Danimarca. Un episodio decidamente inquietante, che secondo molti commentatori rientra nelle “purghe” silenziose in atto nelle strutture federali per allineare ogni voce al progetto trumpiano. Si tratta di questioni su cui c’è decisamente troppo silenzio.

Senza contare le implicazioni ambientali

A rendere ancora più controverso il progetto, ci sarebbero le gravi implicazioni ambientali. La Groenlandia è uno degli ecosistemi più fragili del pianeta, già messo a dura prova dal riscaldamento globale. La sua calotta glaciale si sta sciogliendo a ritmi sempre più accelerati, contribuendo in modo significativo all’innalzamento del livello del mare.

Introdurre mega-infrastrutture, lanci spaziali e micro-reattori nucleari sembra mirabolante e incredibile? Peccato che, su un territorio ancora in parte incontaminato, potrebbe avere effetti irreversibili. Le promesse di sviluppo (anche un po’ azzardate, in pieno stile trumpiano) si scontrano con il rischio effettivo di trasformare un territorio chiave per l’equilibrio climatico globale in una piattaforma estrattiva a cielo aperto, riservata a pochi e non priva di rischi serissimi. Anche se Trump sembra trattarlo in tal modo, questo non è uno scherzo.

Il cinismo geopolitico che sembra passare in sordina

Ma è anche su questo punto che si gioca una partita più ampia: la Groenlandia è ricchissima di terre rare, minerali strategici per l’industria delle batterie, dei microchip e della transizione energetica. Il controllo di queste risorse è oggi al centro della competizione tra Stati Uniti, Cina e Russia. Non a caso, tra le motivazioni ufficiali della nuova pressione americana si cita anche la necessità di proteggere il territorio dalle “interferenze” di Pechino e Mosca. Una narrazione che, dietro il paravento della sicurezza, cela la corsa all’oro verde dell’Artico.

Non è quindi solo una questione geopolitica o economica: la Groenlandia è diventata terreno simbolico di una certa idea di mondo. Da un lato, quella che sogna città digitali, deregolarizzazione estrema e libertà d’impresa totale. Dall’altro, la resistenza di chi (anche nei paesaggi più remoti dell’Artico) rivendica una storia, una cultura, un’autodeterminazione non negoziabile. Per ora, il sogno americano sull’isola resta una proiezione. Ma è proprio nel modo in cui certe mire si aggiornano (mescolando propaganda, big tech e geopolitica) che si capisce quanto le nuove forme di conquista non abbiano più bisogno di cannoni. Oggi bastano codici, dati e algoritmi. E, forse, qualche filtro ben piazzato su TikTok.

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