Il ritorno della storia implica anche un ritorno della politica e, soprattutto, della geopolitica in chiave strumentale. L’idea liberale è diventata obsoleta?
La deplorevole guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina ha riproposto con forza il ritorno della Storia. Oppure, per dirla con le parole di qualche giorno fa di Ezio Mauro su Repubblica (28 febbraio), «la Storia si è spezzata, improvvisamente non c’è più un racconto unico del mondo, condiviso e accettato da vincitori e vinti dei vecchi conflitti».
Il ritorno della Storia implica, inevitabilmente, anche un ritorno della politica, anzi meglio, della geopolitica e, solo dopo, in chiave prevalentemente strumentale, va a posizionarsi l’economia.
É importante ristabilire questa “gerarchia” perché da diversi decenni sembrava che il primato spettasse sempre e comunque di diritto all’economia. E tutto il resto le ruotasse attorno.
Se l’economia avesse mantenuto il suo primato certe sanzioni (sacrosante) non sarebbero mai state comminate dall’Occidente alla Russia di Putin perché i diffusi sacrifici economici che ne seguiranno (basti pensare all’aumento generalizzato dei prezzi di molti beni di prima necessità come gas e grano) non saranno lievi.
Eppure, dicevo, il dominio dell’economia, o meglio di una certa economia di stampo neoliberista fino a pochi giorni fa sembrava inattaccabile. La vita stessa sembrava coincidesse con l’economia, al punto che uno dei padri del neo liberismo, il Nobel per l’economia Friedrich Von Hayek, coniò in proposito, circa a metà del Novecento (insieme ad altri), l’espressione “catallassi” per indicare una sorta di fusione del mercato e della vita stessa in un unico paradigma.
Perché questo tornante della Storia scompagina tutto, ridimensionando il ruolo dell’economia, perlomeno come fine ultimo? Credo sia opportuno partire da quanto dichiarò quasi tre anni fa in un’intervista al Financial Times (28 giugno 2019) proprio Putin: «L’idea liberale è diventata obsoleta».
É davvero così?
Per provare a rispondere in modo sufficientemente esaustivo a questa domanda è doveroso fare un bel balzo all’indietro di ben 371 anni, al 1651, quando viene pubblicato “Il leviatano” di Thomas Hobbes, una pietra miliare nella teorizzazione dello Stato assoluto.
Qui il filosofo inglese descrive lo “stato di natura” come il maggior ostacolo alla convivenza civile perché coincidente con un perpetuo stato di guerra tra gli uomini. A differenza di Aristotele, infatti, per il quale l’uomo era da considerarsi un “animale sociale” propenso a vivere pacificamente insieme agli altri, per Hobbes ogni uomo non si pone limiti per la sua autoconservazione. E, se per approvvigionarsi di ciò di cui ha bisogno per vivere ritiene opportuno fare la guerra ad altri uomini, non ci pensa due volte e la scatena. Siamo in presenza della fatidica espressione, coniata da Plauto, dell’«homo homini lupus», ossia dell’uomo che è un lupo per l’altro uomo.
C’è un solo modo, sostiene Hobbes, per frenare questi istinti che, se lasciati liberi di esprimersi, genererebbero caos e conflitti perenni: affidare tutti i poteri, di vita e di morte, a un sovrano assoluto il quale sarà poi lui a stabilire ciò che è giusto e ciò che è non è giusto per i suoi sudditi. E tutti gli individui dovranno obbedirgli incondizionatamente.
Circa un secolo e mezzo dopo Adam Smith, considerato il padre dell’economia moderna e del liberalismo classico, cercherà di sottrarsi a questa sorta di idea di sottomissione proponendo di elevare lo scambio mercantile a paradigma di ogni rapporto civile. Ma non ci riuscirà fino in fondo perché Smith non spiegava come si potessero “imbrigliare” gli istinti primordiali e guerrafondai dell’uomo al punto da indurli ad accettare e condividere le convenzioni stabilite nei contratti. In altri termini, non aveva senso parlare di patto di compravendita da realizzarsi attraverso uno scambio di soldi contro merce o di merce contro merce se, sia Tizio che acquista da Caio, che Caio che vende a Tizio, erano abituati a procurarsi ciò di cui avevano bisogno attraverso razzie e rapine. Se, sia Tizio che Caio, non avvertivano come profondamente e intimamente consono alla loro natura il rispetto di certe regole e, di conseguenza, l’autolimitazione dei propri istinti predatori, non c’era patto che tenesse. Bisognava trovare il modo che entrambi “sentissero” che lo scambio mercantile fosse quanto di più vicino se non coincidente con il loro stato di natura e servisse alla piena liberazione delle proprie potenzialità economiche e, quindi, umane.
Sarà solo nel Novecento che pensatori del calibro di Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek, Alexander Rustow e altri, pur con accenti anche molto diversi tra loro affronteranno la questione alla radice.
In pratica l’asse portante del loro pensiero neoliberalista (o neoliberista) consisteva nel fatto che gli istinti umani di autoconservazione, che secondo il Leviatano di Hobbes andavano governati da un sovrano assoluto perché altrimenti incontrollabili e fonte di conflitti perenni, dovessero invece essere messi in condizione di “liberarsi” pienamente, senza alcun loro “contenimento”. E questa possibilità sarebbe stata offerta dal mercato dove tutto si sarebbe ricomposto senza spargimento di sangue. Insomma, per i neoliberali era vero che gli uomini fossero animali dinamici che mirano al tornaconto. Ma queste pulsioni, invece di essere ingabbiate andavano assecondate e liberate attraverso rapporti di natura economica che diventavano quindi il paradigma dell’intero spettro di interazione tra gli esseri umani e la garanzia che fare i soldi fosse l’unico vero deterrente a fare la guerra.
Se fino agli anni Settanta del secolo scorso tutto rimane ancora sospeso in una sorta di limbo è con l’arrivo degli anni Ottanta che avviene la grande svolta con l’ascesa al potere di due leader politici carismatici come Ronald Reagan e Margareth Thatcher. Grazie al loro essere uniti da un viscerale anticomunismo, da una fede incrollabile nelle virtù taumaturgiche del mercato, da una concezione dello Stato che dovesse essere il meno invasivo possibile per restituire piena libertà di scelta all’individuo (è passata alla storia la famosa la frase della Thatcher «la società non esiste, esistono gli individui»), il neoliberalismo conoscerà la sua più “clamorosa” affermazione. Ma?
Già, c’era un “ma” di enormi proporzioni che pendeva come una spada di Damocle su quell’immagine apparentemente invincibile che il neoliberalismo voleva offrire di sé e che poi si rivelerà il suo “punto cieco”: se la competizione tra individui doveva considerarsi sempre una cosa positiva da favorire in tutti i modi e l’intervento dello Stato doveva ricoprire un ruolo sempre più limitato (anche nel tutelarli), andava da sé che presto il più forte l’avrebbe avuta vinta sul più debole. Ossia, ancora una volta l’uomo si sarebbe rivelato lupo per l’altro uomo.
Con tanti saluti all’idea che, confluendo sul mercato gli istinti “bellici” dell’uomo, questi avrebbero prodotto benefici per tutti. Altro che catallassi di Von Hayek, qui si andava paventando un vero e proprio collasso che qualche decennio più avanti, nel settembre del 2008, si sarebbe puntualmente verificato con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers quando l’allora sottosegretario al Tesoro dell’Amministrazione Bush, Henry Paulson, già uomo di punta della potente banca d’affari Goldman Sachs, non ne impedì il crack confidando nel tentativo estremo di dimostrare al mondo che, se il mercato viene lasciato libero di fare fino in fondo la sua parte e si pone fiducia incondizionata nella “mano invisibile” che vi agisce, allora quella che di primo acchito può apparire una distruzione di ricchezza si traduce in realtà in una “distruzione creatrice” che libera risorse che troveranno migliore allocazione. Invece fu il canto del cigno del fondamentalismo di mercato e a quel punto, smentito dai fatti, a Paulson non rimase che un’unica possibilità per impedire il default della finanza americana e mondiale: ricorrere a massicci salvataggi di Stato.
Veniamo quindi ai giorni nostri: cosa ha fatto Putin attaccando l’Ucraina se non voler riaffermare la dottrina hobbesiana secondo la quale solo un “sovrano assoluto” ha il potere di regolare gli istinti bellici dell’uomo e definirne le condizioni di convivenza? Sapendo però Putin di non essere un sovrano assoluto, ma aspirando a diventarlo ecco che ha scatenato lui i suoi istinti bellici.
Sembra allora non esserci via di uscita da un simile dilemma. A meno che il tornante della storia che è appena arrivato non si riveli una preziosa occasione per rielaborare un nuovo pensiero per una convivenza pacifica. Lo sosteneva con forza già alcuni mesi fa un grande intellettuale come Edgar Morin: «Viviamo una crisi spaventosa del pensiero: persino e soprattutto tra coloro che sembrano i detentori della verità oggettiva, gli economisti che parlano di calcoli, non si rendono conto che i calcoli non sono sufficienti per comprendere tutti i problemi umani. Il calcolo è uno strumento ausiliario necessario, come le statistiche, i sondaggi e tutto il resto. Ma il punto è che sono tutti strumenti ausiliari di un pensiero assente o inserito in una serie di dogmi come i dogmi del neoliberismo».
Che tipo di pensiero può aiutarci a recuperare il senso di una pacifica convivenza?
Io non ho dubbi al riguardo: un pensiero inclusivo che affondi le sue radici nella cultura del Mediterraneo, un pensiero che il compianto sociologo Franco Cassano (è caduto proprio in questi giorni il primo anniversario della sua scomparsa) avrebbe chiamato “pensiero meridiano” (dal titolo del suo libro sicuramente più famoso), «radicato nella molteplicità delle voci e delle dignità, capace di custodire tutte le forme di vita, comprese quelle immobili, lente, stratificate, dove si è spesso più ricchi di relazioni che quando si è collegati telematicamente con il tutto, tutelando la stessa modernità dal suo avvolgimento in una spirale senza ritorno causata da una sorta di feticismo dello sviluppo».
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