Il prezzo del petrolio resta ancorato sui 100 dollari al barile, spinto dall’incertezza sull’offerta a causa delle sanzioni contro la Russia. Ma anche la Cina sta giocando il suo ruolo sul greggio.
Prezzo del petrolio e Cina: il legame c’è ed è evidente soprattutto analizzando l’andamento assai incerto dell’economia del dragone.
Stressata dalla strategia zero-Covid, che ha costretto città cruciali come Shanghai al lockdown, la potenza asiatica sta guidando anche le aspettative sulle quotazioni del greggio.
Se, infatti, la minaccia dell’embargo sul petrolio russo da parte dell’Ue incombe e l’OPEC+ continua nella sua strategia di aumento graduale, 430.000 barili al giorno, di produzione di greggio, l’offerta carente si scontra con il calo della domanda cinese.
In un grafico elaborato da Ispi, c’è la risposta sul perché il prezzo del petrolio non è davvero schizzato in queste ultime settimane e cosa c’entra la Cina.
Il fattore Cina sul prezzo del greggio in un grafico
Il petrolio ha chiuso gli scambi di venerdì 7 maggio al massimo di sei settimane sui segnali che il mercato si sta stringendo mentre i membri dell’Unione Europea si avvicinano al divieto del greggio russo.
Nello specifico, i future sul Brent sono aumentati di $1,49, o dell’1,3%, per attestarsi a $ 112,39 al barile. Il greggio statunitense West Texas Intermediate (WTI) è salito di $1,51, o dell’1,4%, per terminare a $ 109,77 al barile.
I prezzi restano quindi elevati. Tuttavia, come ha fatto notare un’analisi Ispi, valutazioni più attente hanno riscontrato che, nonostante la grave crisi energetica del momento, i livelli record del prezzo del greggio, 139 dollari al barile, emersi con lo scoppio della guerra sono lontani.
Non c’è soltanto il fattore offerta a influenzare questo complesso periodo per l’oro nero. Qui, infatti, entra in gioco il fattore Cina.
Il risorgere delle infezioni Covid proprio dove la pandemia è iniziata ha mandato in tilt il dragone. Blocchi e lockdown, con severe restrizioni, sono stati imposti e città chiave per il commercio mondiale si sono fermate (Shanghai ne è l’esempio).
Con quale conseguenze? Innanzitutto interne. La Cina è continuamente declassata dalle agenzie di rating, che concordano su un Pil nettamente al di sotto del target di Stato del 5,5%.
La domanda interna è bassa, i consumi vacillano e la produzione industriale è in affanno. Sul fronte petrolio, il grafico Ispi su dati BP, Reuters e Standard Chartered sono chiari: la flessione interna cinese significa meno consumo di greggio e un calo nella domanda globale.
Il tonfo del consumo di petrolio in Cina in questa fase della pandemia è addirittura più pesante di quello della prima ondata del 2020.
In numeri tutto questo significa almeno 1,2 milioni di barili al giorno di petrolio in meno, ovvero il 10% della domanda cinese e l’1% di quella globale.
Con l’Ue titubante sull’embargo e il rilascio di riserve effettuato da Usa e Aie, la scarsità di offerta ha avuto un impatto di minore entità, anche in concomitanza con l’incrocio di una domanda indebolita dal dragone. Per questo, il balzo record dei prezzi del petrolio non si è palesato.
Vero è che un ritorno alla normalità della Cina potrebbe dare una nuova e immediata spinta al greggio. Il trend resta rialzista, recessione permettendo.
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