Meloni ha spiegato alla Camera di essere contraria al salario minimo. Facciamo luce sugli effetti reali che avrebbe l’introduzione di questa misura.
Più volte riprese dalla stampa le dichiarazioni di estrema contrarietà della presidente del Consiglio Giorgia Meloni rispetto al salario minimo. «Peggiorerebbe la situazione» di certo è stata l’espressione più incisiva di tutte, parole giunte tra l’altro in risposta ad una provocazione rivoltole dalla segreteria Pd, Elly Schlein, intervenuta alla Camera durante il question time della premier.
Ma le cose stanno davvero così? È così netto il divario tra rischi e benefici da poterne fare un vessillo ideologico? Per dirimere davvero il contenzioso, dovremmo forse concentrarci sulle analisi dei pro e dei contro addotti dalle parti in merito all’introduzione di questa misura.
Riprendendo i dati e le considerazioni emerse dagli studi internazionali sul tema e le proiezioni che questo cambio di assetto avrebbero sul nostro sistema nazionale, passiamo in rassegna gli snodi fondamentali della questione.
Salario minimo: come funziona nei Paesi dove è stato introdotto?
Chi combatte per il salario minimo cita in giudizio varie teorie economiche e analisi empiriche condotte nei 22 Paesi europei e sui 140 Stati nel mondo in cui è stato già adottato.
Per fare un esempio la Gran Bretagna, dall’introduzione del salario minimo nel 1999, ha registrato un aumento della produttività. A dimostrarlo è stato uno studio di Rebecca Riley and Chiara Rosazza Bondibene per il National institute of economic and social research inglese.
In Francia invece è stato portato alla luce un impatto positivo sugli accordi collettivi, visto che nel Paese la disuguaglianza salariale è stata contenuta grazie all’addizionarsi della misura del salario minimo legale e dei negoziati nazionali e settoriali. Un paper del 2016 di Erwan Gautier, Denis Fougère e Sébastien Roux della Banque de France affermava che «se un settore ha almeno un minimo contrattuale sotto il minimo legale, risulta molto più probabile che si arrivi alla firma di un nuovo accordo collettivo».
C’è poi il caso dell’Ungheria con un’ottima redistribuzione del reddito da consumatori a lavoratori grazie al salario minimo, attestazione certificata da Péter Harasztosi del Joint research center della Commissione Ue e da Attila Lindner dell’University College London.
A conti fatti quindi i principali benefici sarebbero questi:
- riduzione della povertà lavorativa;
- riduzione della disuguaglianza salariale;
- riduzione del divario di genere;
- aumento della produttività.
Queste evidenze tuttavia - è bene specificarlo - non escludono che per contrastare davvero la povertà professionale nelle sue varie sfaccettature non sia necessario, o meglio doveroso, affiancare al salario minimo un’efficace vigilanza sul rispetto dei contratti.
Salario minimo: quali sono i rischi?
Perché la Meloni non vuole mettere in campo alcuna pratica relativa al salario minimo? Le motivazioni sono tante, espresse più volte e da lungo tempo dalla leader di FdI. Troppi rischi di salari al ribasso, meno garanzie e più irregolarità, questo forse un quadro macroscopico che riduce all’osso le ragioni del suo «no».
Approfondiamo però la questione. La premier Meloni dice che in un contesto come quello italiano i virtuosi esempi esteri non sono replicabili a causa dell’elevato tasso di lavoro irregolare. Il rischio, anzi, sarebbe inverso:
«[Il salario minimo] finirebbe per fare un altro grande favore alle grandi concentrazioni economiche che hanno come obiettivo rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori».
Da sottolineare inoltre come una simile contrarietà trovi il pieno appoggio di Cisl e Uil, contrari anche loro alla fissazione del salario minimo per legge e favorevoli all’estensione della contrattazione collettiva anche nei settori nei quali ad oggi non è prevista.
C’è poi il nodo del cuneo fiscale. Meloni ha detto che la soluzione «è intervenire per ridurre le tasse sul lavoro». In altre parole, la vera ragione dei salari inadeguati sarebbe la tassazione troppo alta per le imprese che devono assumere. Mossa che, già da tempo, incontra il forte appoggio di Confindustria ed è già stata confermata dalla Legge di Bilancio 2023.
In definitiva la presidente ha detto:
«Fronteggiare il fenomeno del lavoro povero è una delle priorità del governo. Come fanno notare la Schlein ed altri, l’Italia è l’unico paese Ocse in cui dal ’90 al 2020 il salario è diminuito mentre nel resto dell’Occidente cresceva. E il Pd fa rilevare anche con una sincerità che gli fa onore che negli anni passati la quota di prodotto interno lordo che è stata destinata a salari e stipendi è stata ridotta più che negli altri Stati. È vero, c’è un problema: chi ha governato sino ad ora ha reso più poveri gli italiani e noi dobbiamo invertire la rotta».
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