Suicidio assistito in Italia: quando è possibile e quando è considerato reato alla luce della sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale.
È di queste ore la notizia della prima autorizzazione al suicidio assistito in Italia.
La vicenda ha visto un paziente tetraplegico di 43 anni, da tempo immobilizzato a letto in condizioni di salute irreversibili, richiedere ai sanitari l’accesso al suicidio assistito in conformità alla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019, chiamata a esprimersi sull’argomento in occasione del caso di Fabiano Antoniani, meglio noto come dj Fabo.
Secondo il parere del comitato etico della ASL delle Marche, il caso in questione è compatibile con i requisiti individuati dai giudici della Consulta nella citata sentenza.
Prima di essa, infatti, tale trattamento di fine vita non era consentito, costituendo condotta, in ogni caso, penalmente sanzionabile.
Esistono, tuttavia, limiti ben precisi alla sua ammissibilità: è stata la Corte Costituzionale a stabilirli nell’attesa che il Parlamento intervenga sulla materia.
Vediamo dunque quando è possibile, per il paziente, accedere al suicidio assistito.
Quando è ammesso il suicidio assistito
L’istigazione o aiuto al suicidio
Va premesso che tutt’ora, in Italia, la condotta di colui che “determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione” costituisce reato punibile ai sensi dell’art. 580, c.p.
Ciò significa che, in via generale, agevolare il proposito suicida di altri o aiutare qualcuno nell’atto di compiere il suicidio è considerato comportamento penalmente rilevante, come tale, perseguibile a norma di legge dall’autorità giudiziaria.
Per il reato in questione sono previste pene elevate; in particolare, chi lo commette può essere punito:
- se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni;
- se il suicidio non avviene, con la reclusione da uno a cinque anni (sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima).
Esistono poi pene aggravate per casi particolari, mentre si applica la disciplina dell’omicidio nell’ipotesi in cui la vittima sia minore degli anni 14 o comunque priva della capacità d’intendere o di volere.
In altre parole, prima dell’intervento della Consulta sulla materia, nessuno - nemmeno il personale sanitario - avrebbe potuto dare seguito alla volontà del paziente di porre autonomamente fine alla propria vita, senza integrare il reato di istigazione o aiuto al suicidio.
Eutanasia: cosa prevede la legge oggi
Attualmente, al paziente è riconosciuto il diritto di rifiutare le cure nonché quello di sottoporsi, in fase terminale, alla cosiddetta “terapia del dolore”, ovvero alla somministrazione di cure palliative, anche in stato di sedazione profonda, fino al sopraggiungere della morte.
La disciplina è contenuta nella Legge n. 219/2017 (Legge sul consenso informato), dove è previsto il diritto, per ogni persona capace di agire, di rifiutare, in tutto o in parte, attraverso l’espressione di una chiara volontà (consenso informato), qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso, anche qualora siano necessari alla sua sopravvivenza (articolo 1).
L’articolo 2 della stessa Legge prevede che “Il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze”, ricorrendo, a tal fine, alla terapia del dolore.
Infine, “Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente” (art. 2, cit.).
In altre parole, ciò che la legge consente espressamente al paziente (e, di riflesso, al medico) è la possibilità di arrivare al fine vita sottraendosi alle cure e alleviando la propria sofferenza, eventualmente, anche tramite il ricorso alla sedazione profonda.
Dal punto di vista del medico si tratta, quindi, di un comportamento “passivo”, di astensione dal somministrare ulteriori cure - a eccezione di quelle palliative - al paziente che le abbia rifiutate attraverso l’espressione di un valido consenso o nei casi in cui il trattamento sanitario possa degenerare in “accanimento terapeutico”.
Al riguardo, si parla più comunemente di “ eutanasia passiva ”.
L’omicidio del consenziente
Diverso è il caso della cosiddetta “ eutanasia attiva ”, della pratica, cioè, con cui il medico somministra un determinato farmaco al fine di provocare la morte.
Tale condotta, anche in presenza del consenso e dell’esplicita richiesta del paziente, integra il reato di omicidio del consenziente (art. 579, c.p.) ed è, allo stato, vietata dall’ordinamento.
Essa è differente dal suicidio assistito, dove il medico si limita a prescrivere il farmaco letale che dovrà poi essere assunto, in maniera autonoma, dal paziente.
Secondo l’articolo 579 del Codice penale il reato in esame consiste nel cagionare “la morte di un uomo, col consenso di lui”; esso è punito con la pena della reclusione da sei a quindici anni, fatte salve le ipotesi aggravate.
È quindi attualmente esclusa la possibilità di ricorrere all’eutanasia attiva, così come, in passato, era sempre vietato il ricorso al suicidio assistito poiché considerato istigazione al suicidio ai sensi dell’art. 580, c.p.
A seguito della citata sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale, tuttavia, le cose sono in parte cambiate: vediamo in quali termini.
Il suicidio assistito per la Corte Costituzionale
Investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 580, c.p., la Corte Costituzionale ha ritenuto illegittimo il suddetto articolo nella parte in cui “non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 [...] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente” (Corte Cost., sent. n. 242/2019).
Secondo la Corte, infatti, “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita”.
In altri termini, i giudici della Consulta hanno affermato che il reato di istigazione al suicidio non può considerarsi integrato in presenza delle seguenti condizioni:
- il ricorso alle modalità di espressione e raccolta del consenso libero e informato già previste dalla Legge n. 219/2017 in materia di fine vita;
- l’irreversibilità della patologia di cui soffre il paziente e la preventiva informazione di quest’ultimo sulle proprie condizioni effettive da parte del medico;
- il fatto che tale patologia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche reputate dal paziente intollerabili;
- il fatto che la sopravvivenza del paziente dipenda da sostegni vitali esterni;
- la capacità del paziente di prendere decisioni pienamente libere e consapevoli;
- la verifica circa l’esistenza delle condizioni per l’accesso al suicidio assistito da parte di una struttura di sanità pubblica (la ASL di competenza) con il compito di vigilare sulle sue modalità di esecuzione;
- il preventivo parere del comitato etico territorialmente competente.
Secondo la stessa sentenza, inoltre, è rimessa alla coscienza del singolo medico la scelta di esaudire, o meno, la richiesta del malato, essendogli comunque riconosciuto il diritto di obiezione.
In conclusione, a oggi, il medico che si presti ad aiutare il paziente a porre fine alla sua vita, prescrivendogli un apposito farmaco, alle condizioni sopra indicate e nel rispetto delle modalità previste dalla citata sentenza n. 242/2019, non sarà punibile per il reato di istigazione o aiuto al suicidio.
Ad avviso della Corte, tuttavia, la materia deve essere oggetto di specifica e urgente regolamentazione, attraverso un intervento ad hoc del Legislatore nel rispetto dei principi affermati nella sentenza in argomento.
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