L’epoca dei motori di ricerca sembra giunta al termine e Google sta stravolgendo il suo prodotto di punta che gli ha regalato 20 anni di monopolio. E’ l’inizio della fine?
La ricerca con AI è appena arrivata su Whatsapp anche in Italia, segnalata da un bel cerchietto in overlay fisso in basso a destra sull’app. Questo significa che milioni di utenti, non solo i giovanissimi che a quanto pare già sono passati a fare in massa le loro ricerche su ChatGPT, inizieranno a fare una parte consistente delle proprie ricerche chattando su Whatsapp.
Peraltro, dopo un primo test, abbiamo appurato che i risultati offerti da questo servizio sono davvero validi e pertinenti e sono basati sui primi risultati di una ricerca su Google che viene infatti il più delle volte inserita come link nella risposta.
Al contempo Google sta rispondendo a questa ennesima evoluzione di internet (ma questa volta, forse, si tratta di rivoluzione) in un modo che non sembra molto arguto: copiare chi sta minacciando di sostituirli.
Si tratta peraltro di un pattern che abbiamo già visto quando Google cercò di rispondere all’emergere di Facebook con il progetto Google+, miseramente fallito. Non solo, proprio in quegli anni Google chiuse il progetto Google Labs da cui erano nati negli anni numerosi prodotti e innovazioni che hanno consentito a Google di consolidare il suo dominio incontrastato dell’ecosistema della rete per oltre un decennio. Di fatto, un cambio di mentalità importante: passare dallo sviluppare nuove soluzioni in modo creativo a copiare chi sembra aver azzeccato il trend emergente del momento.
Per quanto per un’intera generazione Google sia sinonimo di “Internet”, non è la prima volta che sul web un dominio incontrastato viene smontato in poco tempo: proprio Google quasi 20 anni fa con il lancio di Chrome pose fine al dominio di Internet Explorer come browser più diffuso.
La parabola di IE non è durata poco: lanciato come parte integrante di Windows 95, Internet Explorer prese velocemente piede come browser di riferimento a danno di Netscape Navigator, sfruttando il vantaggio di essere appunto preinstallato sul sistema operativo quasi-monopolista del mercato dei PC. Più avanti Google avrebbe replicato la stessa strategia sui sistemi mobili con Android, che include nativamente Chrome, in un mercato in cui Microsoft non riuscì a imporre i suoi smartphone e quindi il suo Windows OS. Anche questa storia sembra avere molte affinità con quanto sta succedendo ora sul mercato della ricerca.
Tornando a IE, arrivò ad avere una quota di mercato stimata tra il 90% e il 95% nel 2003, culmine della sua distribuzione in termini relativi. A quel punto fu la stessa Google a spingere un primo browser concorrente: Mozilla Firefox (il neonato programma Google AdSense pagava un premio a chiunque avesse fatto installare Firefox su un PC).
La quota di mercato di IE scese quindi tra l’80% e l’85% nel 2004, con un dominio ancora incontrastato. Nel 2008 debutta Chrome e sul momento IE rimane leader con una stima di utenti tra il 65% e il 70%. Da lì in avanti, il tracollo: 40-45% nel 2012, sotto il 30% nel 2015, sotto il 10% nel 2018, meno del 5% nel 2020.
Nel 2022 termina il supporto da parte di Windows 10 e la stessa Microsoft lo sostituirà con Edge, un browser senza pretese che semplicemente copre un buco in Windows che sarebbe stato sciocco lasciare libero, posto che Microsoft avrebbe tra i suoi prodotti da spingere anche Bing.
Perché Google sta prendendo la strada di Internet Explorer
La situazione di Google assomiglia molto a quella di Microsoft all’inizio del secolo: dopo due decenni di dominio incontrastato nel settore informatico si dava per scontato che avrebbero dominato anche l’epoca di Internet ma così non è stato. Tuttavia, Microsoft non è morta per questo e ha anzi spostato il suo core su linee di prodotto diverse, imponendo la propria forza commerciale nel settore del cloud con Microsoft Azure. Nell’ultimo decennio le azioni di Microsoft sono cresciute in termini relativi il doppio di quelle di Google!

Ad ogni modo, aver trovato la strada giusta non ha impedito a Microsoft di intraprendere anche quella sbagliata, copiando interamente la suite e il modello di Google con il suo Bing, la posta elettronica e quant’altro...tutti investimenti con un ritorno misero e soprattutto nessuna visione strategica originale.
La fase in cui Google è stata il faro di Internet si è chiusa oltre 10 anni fa con la chiusura di Google Labs. Da allora poco di innovativo è stato lanciato e l’azienda si è limitata a prendere il proprio posizionamento su trend e modelli non creati da lei e a lanciare progetti di corto respiro (pensiamo allo standard AMP per le pagine web), peggiorando al contempo in modo sistematico il proprio prodotto di punta, il motore di ricerca, meno capace di anni fa di fornire i migliori risultati presenti sul web e sempre più pieno di annunci pubblicitari.
Il motto di Google nei suoi primi anni è stato “don’t be evil”, “non essere cattivo”, e questo atteggiamento di gentilezza, verso gli utenti in primis, aveva portato a uno standard consolidato di un massimo di due annunci pubblicitari nei risultati di ricerca. Sappiamo tutti cosa significhi fare una ricerca su Google oggi. I dati confermano che il numero di clic sugli annunci pubblicitari è di gran lunga superiore ai risultati «veri», quelli organici.
Il suicidio finale di Google: i risultati AI
Da tempo Google ha percepito l’AI come la “next big thing” e l’ha inquadrata come problema numero uno per il suo business di motore di ricerca, che nel 2023 valeva ancora il 57% del fatturato dell’azienda. Per quanto certamente le risposte erronee che abbiamo sopra descritto siano state individuate e studiate a livello accademico, certamente anche a Stanford, la risposta di Google è la classica risposta “di pancia” che la porterà al fallimento: “il leader sono io, questa cosa la farò anche io e la farò meglio, sbaragliando la concorrenza”.
Chiunque abbia testato varie AI sa che Gemini è molto lontana dal top di settore e la scelta di iniziare a fornire risultati generati da AI, scelta che aveva alternative che Google non ha nemmeno considerato, sta diventando release di prodotto generando due effetti.
Il primo: risultati ancora più scadenti!
Le ricerche con AI (non solo quella di Google) non sono affidabili e possono fornire dati errati senza nessuna indicazione a fare ulteriori verifiche. Un esempio pratico: la morte del poeta Carducci.


Il tutto è ancora più folle se pensiamo agli anni di battaglie delle big tech contro la “disinformazione” per arrivare a lanciare questo spacciandolo per innovazione. Non solo: con questa scelta Google si abbassa al livello di qualsiasi AI con accesso al web non tenendo conto che ha in mano un prodotto diverso e migliore, con una leadership consolidata e ancora “top of mind” per la gran parte degli utenti che devono fare una vera ricerca.
Il secondo: le risposte AI danneggiano comunque il business
Una recente ricerca di Seer Interactive ha mostrato i dati sui CTR (numero di clic per 100 ricerche) su risultati organici e annunci con o senza risultati AI. Il risultato: tutti i clic verso pubblicità e risultati di ricerca calano drasticamente!

Questo significa che Google perderà comunque soldi con questa scelta e lo farà più in fretta che scegliendo di difendere il suo posizionamento tradizionale di ottimo motore di ricerca. Ci sarebbe stato anzi spazio per tornare a ridurre gli annunci pubblicitari, tornare ai vecchi algoritmi decisamente più efficaci e riconquistare la fiducia del pubblico che ha vissuto con frustrazione anche l’evoluzione del motore di ricerca negli ultimi anni.
Il futuro di Google
Fatte queste premesse, Google morirà davvero? Se inteso come motore di ricerca è lecito aspettarsi una lenta agonia, è come se oggi fossimo nel 2008 di Internet Explorer.
Premesso questo, già oggi Google fa altro oltre alla ricerca e probabilmente, come Microsoft, diventerà un elefante super-ricco che magari in futuro troverà la scommessa giusta per tornare a crescere e costruire una leadership su qualche settore, magari con qualche acquisizione azzeccata (vedi l’editoria video con la piattaforma YouTube).
D’altro canto, nel breve le scelte sbagliate di Google saranno probabilmente causa di una crisi. Il fatturato di Google è così stimato (dati 2023):
- Google Search e altri servizi pubblicitari: 55-60% del totale Alphabet (190-210 miliardi di dollari).
- YouTube Ads: 10% del totale (35-40 miliardi di dollari).
- Google Network (pubblicità su siti partner): 8-9% del totale (30-35 miliardi di dollari).
- Abbonamenti, piattaforme e dispositivi: 10-12% del totale (35-45 miliardi di dollari).
Quindi l’intero ecosistema Google rappresenta poco più della metà dei ricavi di Alphabet e il core business in fase di uccisione è poco più della metà di questo sottoinsieme. Questo significa che Alphabet esisterà anche domani e forse prospererà, il motore di ricerca di Google invece potrebbe finire per diventare poco significativo e, come abbiamo visto, la scelta di Google di trasformarlo secondo i trend del momento non farà che accelerare questo processo.
C’è infine uno scenario in cui personalmente credo ma che sarebbe stato da dimostrare: rimanere fedele al compito di essere un ottimo motore di ricerca, con il giusto affollamento pubblicitario e con risultati ottimi, avrebbe forse potuto dare una seconda giovinezza a Google Search.
Come abbiamo visto, infatti, i risultati AI sono intrinsecamente fallaci e contengono allucinazioni. Non è escluso che questo possa portare una quota crescente di utenti, passato l’effetto novità, a tornare a utilizzare un servizio meno «magico» ma più affidabile. Chissà che questa opportunità non sia colta da altri motori di ricerca più lungimiranti nei prossimi anni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA