Terzo tonfo azionario di fila, eppure il rendimento del decennale è sceso di 20 punti a luglio. Quasi il mercato gradisse la purga di Pechino. Il Qe perenne presuppone forse un approccio «cinese»?
La Cina ha smesso da tempo di scherzare. Le baruffe tariffarie dell’era Trump, ormai, sono materia per i libri di storia. Ora Xi Jinping ha deciso di cambiare passo. E lo ha fatto in base ai canoni classici della dissimulazione, di quell’inganno che a detta di Sun Tzu sta alla base stessa della guerra.
Per capire la portata di quanto sta accadendo sui mercati azionari cinesi, alcuni grafici parlano più di mille parole:
Fonte: Bloomberg
con il -5,5% collezionato oggi, l’indice tecnologico Hang Seng ha segnato un -17% in tre giorni di contrattazioni, collezionando un’altra performance da incubo per i suoi nomi più roboanti come Tencent (-10%) e Meituan (-16%). Con il calo odierno, a un anno dal suo lancio l’indice è entrato ufficialmente in territorio negativo. Un bagno di sangue.
Tale da aver visto il comparto tech del Dragone perdere oltre un trilione di dollari di market cap dai massimi di fine febbraio a oggi, cui si sono appena andati ad aggiungere buona parte dei 100 miliardi di controvalore del settore di tutoring on-line, ultima vittima eccellente della mannaia regolatoria di Stato imposta da Xi Jinping. E questo secondo grafico
Fonte: Bear Traps
mette in prospettiva quanto sta accadendo: il KWEB, il principale Etf cinese legato al comparto internet, ha appena toccato il minimo record nella correlazione con lo Standard&Poor’s 500, il tutto a soli cinque mesi dal raggiungimento del massimo storico nel medesimo raffronto. Un’intera decade di out-performance bruciata in pochi mesi: apparentemente, Pechino pare intenta all’auto-flagellazione.
E il perché sta tutto in questi altri due grafici, decisamente esplicativi:
Fonte: Bloomberg
Fonte: Bloomberg
i default sul mercato corporate interno cinese hanno appena superato il totale dell’intero 2020, stante il numero di mancati pagamenti su securities salito a 140,5 miliardi di yuan (21,7 miliardi di dollari). Il tutto senza alcun elemento di panico generalizzato e con la Banca centrale (Pboc) che continua a limitarsi a interventi mirati e chirurgici, operando di sponda con quanto immesso nel sistema un mese fa attraverso il taglio dei requisiti di riserva bancari. Ma è il secondo grafico a fare paura: l’operatività su margin loans degli investitori cinesi pare non conoscere pausa, nonostante la correzione in atto. L’indebitamento per l’acquisto di equities a Shanghai, infatti, ha appena toccato quota 884 miliardi di yuan (116 miliardi di dollari), il massimo dal 2015. L’anno dell’esplosione della grande bolla del Dragone.
Non solo Pechino si auto-flagella, punendo il proprio mercato azionario ma sta colpendo con maoista durezza persino i suoi stessi cittadini, rei forse di continuare a credere nel male necessario del capitalismo finanziario. Più si indebitano per comprare azioni, più Xi Jinping pare impegnato a farle crollare. Perché? Lo mostrano questi altri due grafici:
Fonte: Bloomberg
Fonte: Bloomberg
primo, quanto sta avvenendo a livello politico e regolatorio, la stretta sul mercato, ha fatto crollare al minimo da sette anni il livello di indebitamento per attività estere di M&A di aziende cinesi. Tradotto, un ricatto verso chi fino ad oggi aveva beneficiato dei munifici (e spesso, strategici) investimenti di Pechino: quei flussi di capitale non sono più garantiti. Anzi, il giro di vite regolatorio rispetto a Ipo su mercati esteri opererà da ulteriore freno per la voce FDI (Foreign Direct Investment) riconducibile alla Repubblica popolare.
E il secondo grafico mostra la reazione proprio del mercato a questa campagna estiva di Xi Jinping: il rendimento del decennale cinese ha perso 20 punti base da inizio luglio, segnando il calo nello yield più marcato dal febbraio 2020, al picco della pandemia. Insomma, l’auto-flagellazione paga a livello di credibilità dei conti. Ma il messaggio implicito appare ancora più inquietante e inconfessabile: gli investitori paiono confermare la «bontà» delle mosse regolatorie cinesi, consci dell’onnipresenza di bolle sugli assets dovute al Qe perenne. E quindi, quei continui bagni di sangue in Borsa vengono valutati come benefiche purghe dagli eccessi. E non sintomi di un decadimento mortale nei fondamentali.
Insomma, la Cina non sta sgonfiando solo bolle sugli assets. Sta imponendo un modello. E lo sta facendo con la forza tranquilla e silenziosa di chi sa che, dall’altra parte, le munizioni rimaste a disposizione per una guerra simile sono poche. Pochissime. Quasi inesistenti. Tanto che l’unica reazione giunta finora da Washington, a fronte di un indice Golden Dragon del Nasdaq che sta imponendo perdite enormi agli investitori Usa, è stata la nuova normativa della Sec rispetto al potenziale di interferenza governativa cinese nel business delle aziende del Dragone quotate sui mercati Usa. Praticamente, un’aspirina per tentare di bloccare lo sviluppo di una polmonite.
Dall’Europa, in compenso, nemmeno questa ridicola panacea. Silenzio tombale. Anzi, reazioni bilaterali in ordine sparso da parte dei vari governi, in base ai vati livelli di sinofobia dei partiti al potere. Il cosiddetto mondo libero non coglie il carattere epocale della sfida messa in campo da Pechino? O, forse, è costretto ad abbozzare per una ragione tanto semplice, quanto ancora inconfessabile? Ovvero, la presa d’atto della dipendenza del sistema dal Qe perenne, un qualcosa che impone però un regime emergenziale sistemico che garantisca ai governi e alle autorità sovranazionali mano libera e scavalcamenti continui dei limiti e dei confini imposti dagli ordinamenti democratici. Insomma, occorre diventare un po’ cinesi per continuare a monetizzare debito e finanziare deficit? Il processo di trasformazione socio-economico da green pass globale in atto rappresenta forse la prova generale?
© RIPRODUZIONE RISERVATA