Come vedono la guerra tra la Russia e l’Ucraina negli Stati Uniti?

Glauco Maggi

25/02/2022

Il pensiero dei cittadini americani, che nell’era del post trumpismo si dimostra più frammentato che mai, sembra finalmente trovare un trait d’union. Almeno per ora.

Come vedono la guerra tra la Russia e l’Ucraina negli Stati Uniti?

La giovane top manager italiana di una azienda di Milano con un’importante filiale americana è un’amica di famiglia. È appena arrivata a New York ed è, comprensibilmente, preoccupata per la piega europea che può prendere la guerra avviata da Putin con il “riconoscimento” delle due piccole repubbliche-fantoccio nella regione ucraina del Donbass.

La sua curiosità, con l’accenno a pericolose, drammatiche conseguenze per il Vecchio Continente, mi ha stimolato a fare un paragone tra la reazione degli americani e quella dell’Europa. Gli Stati Uniti passano, oggi nel post trumpismo, per essere divisi, come mai sono stati, su tutto: in economia, sulle ricette per la crescita e contro l’inflazione; nella cultura e nella società, sul razzismo sistemico o in regressione; nella immigrazione, sui confini aperti ai clandestini o protetti dalla legge. Eppure, in questo clima di tensioni e passioni di giornata che incendiano le elezioni congressuali ogni due anni (e quelle presidenziali ogni quattro), gli americani hanno un timone al quale nei momenti di vera crisi stanno attaccati saldamente (inaspettatamente lo può dire solo chi non conosce il passato del paese).

È il timone dei valori della Costituzione del 1787, fondamento di una patria di adozione, unica e sempre in pericolo, e per questo sempre in allerta. Umanamente imperfetti e frutto di compromessi, questi principi (di libertà di parola, di indipendenza, di basilare rispetto della legge) hanno aiutato i cittadini americani, pur in fisiologica mutazione etnica interna per l’incessante rifornimento di immigrati, a mantenere viva la loro “repubblica” (“È una repubblica se saprete tenerla in vita”, rispose Benjamin Franklyn, uno degli autori della Costituzione, a una donna che gli aveva chiesto, alla fine dei lavori di Filadelfia, se era nata “una monarchia o una repubblica”). Il popolo americano, nella sua fede strategica nel progetto repubblicano, ha poi superato prove drammatiche: dalla Guerra Civile per eliminare lo schiavismo alle due Guerre Mondiali e alla Guerra Fredda per battere regimi canaglia, fascisti, nazisti e comunisti.

Finora è sempre stata “dalla parte giusta della Storia”, l’America. Purtroppo è uno slogan che non vale per l’Europa, e tantomeno per la Russia e la Cina. Intanto, l’invasione dell’Ucraina proietta uno scenario dai contorni imprevedibili. Come si posizionano gli Stati Uniti nell’affrontare la crisi? La reazione del presidente Biden è nella sua condanna dell’attacco russo “premeditato, non provocato”, nelle “sanzioni” già decise da giorni e incrementate il 24 febbraio, e nello sforzo improbo di tenere salda l’unità “con gli alleati in Europa e nella Nato”.

Ma dietro le dichiarazioni ufficiali del leader Usa è importante capire quale sia il vero sentiment della nazione americana. Si sa che ogni Stato, democratico s’intende, si comporta in linea con ciò che la maggioranza pensa sia giusto fare. E qui emerge la differenza di fondo tra gli americani e gli europei, tedeschi, francesi e italiani in particolare.

In Europa, per essere brutali, se va bene c’è una sorta di equidistanza dell’opinione pubblica nel giudicare la Russia e gli Stati Uniti. Sarà che pesa il ricatto energetico di Putin? Sarà la preferenza ideologica, storica e ancora diffusa, per il socialismo e il marxismo? Sarà il suo corollario, l’anti-americanismo costante nel volgo e nelle élite, che esplode ancora di più se alla Casa Bianca c’è un repubblicano (vedere Reagan, i due Bush, Trump)? Sarà quel che sarà. Resta il fatto storico che è stata l’America, con la sua chiarezza manichea dei valori, che dopo aver distrutto fascisti e nazisti ha vinto la Guerra Fredda.

L’Europa (dell’Ovest) ha sopportato, più che applaudito, la sconfitta di Mosca e la fine dell’URSS, a differenza dell’entusiasmo della “Nuova Europa” dell’Est dei paesi ex sovietici (la definizione è del ministro degli esteri di George W. Bush, Donald Rumsfeld, e non poteva essere più accurata). Da qui, i due trend dominanti: mentre l’anticomunismo è un valore che il DNA degli americani conserva bene stretto, negli europei è fiorente l’anti-americanismo, persino venato a volte da filo-putinismo.

In America, di fronte al precipitare della situazione attorno alla capitale Kiev, la condanna per l’azione di Putin non viene solo dalla quasi totalità dei Repubblicani. Il senatore Mitt Romney, ex candidato presidente perdente, ha avuto il suo momento di gloria, e di rivincita, quando ha ricordato giorni fa lo scambio con Obama, prima del voto del 2012: “Il pericolo geopolitico maggiore per il mondo è la Russia di Putin”, aveva detto Romney nel dibattito in Tv. Fu preso in giro, da Obama e anche da Biden, ma aveva ragione: infatti nel 2014 Putin occupò la Crimea, e ora punta su Kiev.

Madeleine Albright, ex segretario di Stato di Bill Clinton, ha ricordato sul New York Times che, nel 2012, disse che il commento di Romney era “fuori del tempo, del tutto sbagliato”. Oggi però si è pentita: “Personalmente gli devo le mie scuse, per aver sottovalutato la minaccia russa”. Onore all’onestà. Anche tanti altri Democratici anti Putin, quindi avversari dell’ala filo comunista del caucus progressista di Alexandria Ocasio Cortez, sono scesi in campo a difesa dell’Ucraina.

Il giornalista William Galston, la voce ufficialmente liberal del Wall Street Journal, ha messo il dito sulla piaga della ambiguità europea. Dopo aver criticato i ritardi di Berlino e Parigi nel rendersi conto del pericolo di Mosca, ha scritto in settimana che

“La sfida si estende al di là dei due paesi più forti in Europa. Generazioni di europei post-bellici si sono convinti che l’uso della forza non è più necessario per sistemare le dispute tra le nazioni. Hanno creduto che la diplomazia, sostenuta dalla legge e dalle istituzioni internazionali, era la via del 21esimo secolo per mantenere la pace. Contro questo scenario, l’invasione russa della Ucraina dovrebbe scatenare una crisi di identità europea.”

Poi ha aggiunto:

“Se la forza è una componente permanente delle relazioni internazionali, l’Unione Europea deve o prendere maggiori responsabilità per la propria difesa o ammettere che ha sub-contrattato questo lavoro agli Usa indefinitamente, cedendo insieme anche qualche pretesa di strategica indipendenza. Questo non è il tempo per esitare. Il Presidente Biden deve guidare senza ambivalenze, e i membri della alleanza occidentale devono sopportare una sofferenza di breve termine per proteggere un futuro democratico. L’alternativa è una ripetizione del 1938. Putin come Hitler, non si può essere più chiari.”

Joe Lieberman, candidato ex vicepresidente con Al Gore, nel ticket Democratico del 2000, gli ha fatto eco in un commento sul WSJ, sostenendo che il presidente ucraino “dovrebbe accelerare la richiesta del suo paese di diventare un membro della Unione Europea e gli USA e l’Europa dovrebbero sveltire la procedura per l’ingresso della Ucraina nella Nato”. Allarmi anti appeasement di questo tono sono l’espressione di quella lucidità americana di fondo nel riconoscere il nemico strategico della sicurezza dell’Occidente, e quindi della stessa America, nella Russia di Putin.

Anche in Congresso, molti deputati e senatori dei due partiti sono scesi in campo per promuovere misure che siano di appoggio a Biden per iniziative a difesa dell’Ucraina, e di boicottaggio della Nord Stream Pipeline 2 che dovrebbe esportare il gas naturale fuori dalla Russia (lo stop alla certificazione della sua operatività è tra le sanzioni adottate finora).

Comunque anche negli Usa, in misura irrilevante rispetto all’Europa, ci sono state a sinistra e a destra delle uscite stonate rispetto all’approccio mainstream filo America dei media e dei due partiti. Thomas Friedman, bandiera liberal del New York Times, ha dato la colpa dell’invasione russa (oltre che a Putin, e ci mancherebbe altro…) alla “mal considerata decisione degli Stati Uniti negli Anni Novanta di espandere la Nato dopo - o meglio a dispetto - del collasso dell’Unione Sovietica”.

Un caso di appeasement recidivo, visto che Friedman ha voluto ricordare che lui aveva espresso questa stessa critica all’America anche nel passato, cioè quando i paesi ex comunisti erano impazienti di entrare nel consorzio dei paesi liberi e democratici. E quindi nella Nato e nella UE, avendone il sacrosanto diritto. Secondo Friedman l’America aveva “provocato” la Russia, e ora ben le sta, alla povera Ucraina. Una gaffe non provocata, tra i Repubblicani, è stata invece quella di Trump, che ha definito “un genio” Putin per il come e il quando ha invaso l’Ucraina.

C’è da scommettere che un commento del genere, osceno e oltraggioso qualsiasi sia stato il contesto in cui l’ex presidente lo ha rilasciato, diminuirà il seguito che ancora vanta tra i conservatori sensati. Quelli che non dimenticano le buone cose fatte dall’ex presidente durante il suo mandato, ma che, soprattutto, vogliono vincere le prossime elezioni. E che hanno la statura etica e politica adeguata a condannare un dittatore che invade un vicino paese democratico.

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