Sul crepuscolo di Donald Trump pesa il declino della sua influenza

Glauco Maggi

29 Marzo 2022 - 07:33

Le primarie del 2022 sono davvero dietro l’angolo e se fino a poco tempo fa un endorsement di Donald Trump era ben visto nel partito Repubblicano, ora le cose stanno cambiando.

Sul crepuscolo di Donald Trump pesa il declino della sua influenza

“Lasciamoci alle spalle Trump” (Rich Lowry sul New York Post del 25 marzo). “Il potere di endorsement (sponsorizzare) i candidati di Trump sta tramontando” (dal sito Common Sense di Bari Weiss, giornalista con trascorsi al Wall Street Journal e al New York Times, ora collaboratrice del tedesco Die Zeit). “No a Trump nel 2024” (Charles C.,W. Cooke, 15 marzo, sulla National Review, rivista storica della destra Usa fondata nel 1955 dal giornalista conservatore William F. Buckley Jr). Si moltiplicano le voci nella destra intellettuale americana che favoriscono e caldeggiano con gli editoriali, o registrano con articoli di cronaca, l’esigenza diffusa di ricambio nel prossimo ticket presidenziale del 2024.

Anche chi è esplicitamente simpatizzante del partito repubblicano “trumpiano” di oggi, come Lowry e Cooke, spera, anzi implora, che Donald non sia il nominato. “Il partito dovrebbe entrare in una nuova fase, più discrezionale, nella sua relazione con Trump”, ha scritto Lowry. “Il miglior argomento a suo favore quando fu nominato nel 2016 era di essere la sola alternativa a Hillary Clinton e nel 2020 la sola alternativa a Joe Biden. Non è più il caso ora. I Repubblicani possono scegliere tra una varietà di alternative nel 2024 che non fanno di ogni cosa un fatto personale, che non creano caos in tutto quello che fanno e che non si portano dietro più bagaglio della stiva di un Airbus A380”.

Ci sono almeno una ventina di potenziali candidati per ogni palato, e Lowry ne cita tre. Un repubblicano vuole la versione ultra-populista? C’è il senatore del Missouri Josh Hawley. Preferisce un politico con esperienza di governo e vicinissimo a Trump? Ecco Ron DeSantis governatore della Florida. Non vuole rinunciare allo spirito combattivo e allo sdegno per l’establishment dell’ex presidente? Voti Ted Cruz, senatore del Texas che fu secondo nella gara per la nomination del 2016 e da allora è trumpiano fedele. Non occorre diventare Never Trump. Si possono apprezzare i risultati delle sue politiche, restare anche affezionati a lui, ma pronti ad andare oltre.

Le elezioni generali possono essere complicate perché chiedono al pubblico di decidere tra un Repubblicano e un Democratico, entrambi già nominati dai rispettivi partiti”, ha scritto Cooke. “Ma le primarie sono differenti. Nelle prossime del Gop la domanda sarà: avendo a disposizione una libera scelta chi vuoi che corra contro Biden?’. La mia risposta sarà un Repubblicano che ha la probabilità di vincere, e che se vince non creerà un casino insano”. Cooke confida che i Repubblicani non ricandideranno mai un perdente, come non si sono affidati a Gerald Ford nel 1980, a George H. W. Bush nel 1996, a Bob Dole nel 2000, a John McCain nel 2012, a Mitt Romney nel 2016.

Se le primarie del 2024 sono lontanissime, quelle del 2022 sono dietro l’angolo. Gli endorsement di Trump erano visti come decisivi un anno fa, ma lo sono molto meno dopo il caso del repubblicano della Virginia Glenn Youngkin che ha vinto il governatorato senza baciare l’anello di Donald. Il sito Common Sense riporta che “molti candidati repubblicani in tutto il paese sponsorizzati dall’ex presidente stanno mostrando numeri deludenti nei sondaggi”. In particolare, J.D.Vance, il candidato più trumpiano nelle elezioni in Ohio è solo terzo, e non brillano in Idaho Janice McGeachin (vice governatore), in Georgia David Perdue (senato), e in Alabama Mo Brooks (senato). Quest’ultimo è un caso a sé, e mette a nudo il tallone d’Achille di Trump, il più penalizzante.

Mo Brooks, conservatore senza macchia e oggi deputato, partecipa alle primarie contro altri candidati del GOP. Sponsorizzato da Trump, si era permesso di dire in un comizio ai suoi fans alcuni giorni fa che era ora di mettere alle spalle la faccenda dei brogli che avrebbero negato a Trump la vittoria. L’ex presidente gli ha tolto l’endorsement, accusandolo “di aver fatto un orribile errore”, a proposito della “truffa delle presidenziali del 2020”. Brooks ha ribattuto con un comunicato durissimo: “Il solo modo legale in cui si può superare la debacle elettorale del 2020 è, per i patrioti americani, focalizzarsi per vincere le elezioni del 2022 e del 2024. Così avremo modo di approvare leggi che ci diano elezioni oneste e accurate. Il presidente Trump mi aveva chiesto di annullare le elezioni del 2020, di rimuovere immediatamente Biden dalla Casa Bianca, e di tenere una nuova elezione speciale per la presidenza. Da avvocato ho ripetutamente detto a Trump che il 6 gennaio (voto in Congresso ndr) è il verdetto definitivo della gara e che né la Costituzione né il Codice civile Usa permettono di fare ciò che il presidente Trump chiede. Punto”. Sono segnali disparati che la stella di Trump e’ sulla via del tramonto, anche se i sondaggi lo indicano come il favorito nelle primarie del GOP e lo danno 45 a 45 in un eventuale testa a testa con Biden.

Trump ha perso il fattore sorpresa che lo catapultò dalla Trump Tower alla Casa Bianca. La sua capacità di imporsi nel 2016 sui media, trasformando le sue sparate in alta audience televisiva e in una serie di slogan di successo che hanno ridisegnato l’immagine e l’agenda stessa del partito, non ha mostrato una fresca vena che possa reggere nella futura sfida. Il suo progetto di un “twitter” o di un “facebook” alternativi non sta decollando.

È vero, ha ottenuto vittorie innegabili nel quadriennio al potere: dalle riforme delle tasse allo stop (tendenziale) dell’immigrazione clandestina; dalla indipendenza energetica con il gas naturale da fracking ai minimi della disoccupazione di neri, ispanici e donne; dai vaccini anti Covid prodotti a tempo di record ai Patti di Abramo tra Israele e paesi arabi. Tutte vittorie che però ha affogato lui stesso in un pantano di comunicazione inefficace, dispersiva, incapace di creare il brand della affidabilità. Semmai l’opposto. Trump ha, giorno dopo giorno, con metodo, non soltanto procurato agli avversari diretti e ai media, che lo odiavano politicamente, proiettili sempre più micidiali per impallinarlo: gaffe imbarazzanti, attacchi sopra le righe e fuori bersaglio. Ha ignorato tutte le buone occasioni (i dati economici e i vaccini sono stati le vittime sempre sacrificate agli sproloqui polemici dal gusto irritante e alle liti con i giornalisti della Cnn) per parlare al pubblico generale con i toni normali e civili di un uomo politico che punta a durare nel tempo. E che deve sempre cercare di allargare il consenso. Di suscitare stima e simpatia. Di piacere alla platea. Cosa in cui fu maestro Ronald Reagan.

Trump, e tanti commentatori anche simpatetici con lui, hanno sostenuto che proprio il suo approccio “non professionale” gli ha garantito il favore di milioni di persone comuni, avvicinando alla sua figura spesso scostante - o con me o contro di me - chi era disgustato dalla “vecchia politica”.
Se c’è del vero in questa tesi, c’è pure il rovescio che si è rivelato più importante, e decisivo nel 2020. Trump è entrato in politica anche grazie ai successi in tv, e si è inebriato del ‘movimento’ che aveva inventato nel 2015-2016, convinto che gli avrebbe assicurato il bis. Così non è stato. Non aveva calcolato che l’antipatia seminata tra i suoi “non seguaci” con il suo modo d’essere avrebbe creato un contro-movimento. I Never Trump non sono fioriti solo tra i repubblicani vecchio stampo (un autogol evitabile, almeno in parte), ma anche tra gli elettori politicamente aperti e indipendenti, interessati e informati, le famiglie normali dei sobborghi (questo è un errore grave). E, soprattutto, tra le tantissime persone comuni, senza particolare passione e cultura politica. E questo è diventato un suicidio alle urne, come hanno dimostrato agli exit poll del novembre 2020 i milioni di elettori che hanno detto di aver votato ‘contro Trump’ e non ‘a favore di Biden’.

Trump non si è arreso ai numeri delle urne: aveva perso la Casa Bianca e non lo voleva accettare. Anche Al Gore nel 2000 e Hillary Clinton nel 2016 sono ancora convinti di essere stati depredati. Ma c’è modo e modo anche nella sconfitta. Intanto, entrambi i Democratici non hanno comunque mai corso. E il “movimento popolare trumpiano”, con la sciagurata manifestazione violenta (e buffonesca) da lui fomentata il 6 gennaio 2021, non fermata e mai seriamente denunciata, davanti e dentro la sede del Congresso, è degradato in setta. È una degenerazione che ha riguardato una esigua minoranza di esagitati e ha partorito il marchio del “culto di Trump”. Ciò ha allontanato progressivamente da lui la classe dirigente del partito repubblicano, e tanti suoi alleati: ultimo, il ministro della Giustizia William Barr che ha scritto un libro devastante per la reputazione di Trump. Il suo ex vice Mike Pence e il capo dei senatori Mitch McConnell guidano la fronda politica a Washington, ma gli strappi “strategici” anti Trump si moltiplicano anche nella sua base.

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