Il proxy in tempo reale della Fed di Atlanta per il 3 trimestre scende dall’1,2% allo 0,5% in 4 giorni. Di fatto, contrazione e con i prezzi in rampa di lancio a minacciare i consumi. Serve altro Qe?
Il 15 ottobre, il GDPNow della Fed di Atlanta relativo al tasso di crescita Usa per il terzo trimestre scese all’1,2% dall’1,3% registrato solo il giorno prima. Il 19 ottobre è andata peggio: 0,5%. Di fatto, il tracciatore in tempo reale dello stato di salute dell’economia statunitense sta pericolosamente flirtando con la contrazione. Ancora a fine agosto, viaggiava sul 6%, come mostra questo grafico.
Il prossimo aggiornamento è atteso per il 27 ottobre e in molti temono lo scherzetto di Halloween anticipato: se si dovesse arrivare allo 0%, psicologicamente qualcosa cambierebbe.
E forse, come nella Gran Bretagna assediata da un tasso di inflazione che viaggia su proiezioni del 7% per la prossima primavera e con la Bank of England pronta a un conseguente primo rialzo dei tassi già a novembre, il Covid potrebbe tornare con la sua minaccia. Quantomeno, in modo tale da gettare ancora un po’ di fumo attorno al taper e rimandare l’appuntamento da metà del mese prossimo a metà dicembre. A quel punto, poi, il ragionamento sarebbe semplice: perché rovinarsi il Natale, rischiando sbandate degli indici. Ci penseremo nel 2022.
Quando, magari, quel dato del GDPNow sarà passato in negativo. Stagflazione, quindi. E questo altro grafico
parla chiaro: il Macro Surprise Index di Citi negli scorsi mesi sembra aver lavorato in tandem con il proxy informale della Fed di Atlanta, salvo per un rimbalzo tardo-estivo. Poi, la china è tornata quella di una contrazione. Gli ottimisti, categoria che annovera fra le sue fila gli apologeti della transitorietà dell’inflazione, si fanno forti delle previsioni di Goldman Sachs per il quarto trimestre, nel quale i consumi opereranno da driver del Pil grazie al combinato fra risparmi in eccesso e stagione festiva. Peccato che questo altro grafico di Morgan Stanley
rischi di rompere le uova nel paniere: soltanto un terzo dei 2 trilioni di risparmi in eccesso generati dei programmi di stimolo pandemico (Fed e Tesoro) sono andati all’80% di popolazione meno abbiente. La quale, quindi, con ogni probabilità ha già speso il suo gruzzolo.
E ora si trova ad affrontare il Natale con un triplice problema: mancanza di liquidità disponibile, scaffali vuoti e prezzi in continuo aumento. Difficile che in un contesto simile possa materializzarsi la previsione di Goldman Sachs, più facile che la banca d’affari newyorchese operi la sua ennesima revisione al ribasso dell’anno in corso. E a confermare come il quadro tenda già oggi a un drastico peggioramento ci ha pensato uno dei re della grande distribuzione alimentare statunitense, John Catsimatidis, proprietario di marchi come Gristedes e D’Agostino Foods, intervistato da Fox Business. Ecco le sue parole: Per quanto mi riguarda, prevedo fin da ora un altro 10% di aumento dei prezzi alimentari da qui ai prossimi 60 giorni. E occorre essere chiari: non vedo alcun segnale di inversione di tendenza, quantomeno nel breve termine.
Insomma, il combinato di inflazione e colli di bottiglia nella supply chain sta già picchiando duro: I prezzi alimentari stanno già crescendo tremendamente e continueranno a farlo, questo perché i CeO delle aziende leader non vogliono farsi trovare al di qua della curva inflattiva e stanno già oggi eliminando la gran parte delle promozioni. E non basta, perché se ci fate caso, dalle grandi catene stanno già sparendo tutti i prodotti slow-moving. Ovvero, quelli con bassa richiesta e destinati e restare sotto forma di scorta per troppo tempo, quantomeno rispetto ai costi che questa impone alle aziende.
E i numeri, almeno quelli ufficiali, parlano chiaro: gli americani stanno pagando la benzina il 42% in più rispetto all’anno scorso; il 10,5% in più per uova, pollame, carne e pesce; il 19% in più per il bacon; il 6% per il burro di noccioline; il 27% in più per propano e kerosene; il 5,2% in più per l’elettricità; il 24,4% in più per un’auto usata media e il 5,2% in più per gli elettrodomestici. Insomma, sembra che all’America più che un taper serva un altro po’ di stimolo pandemico, sia sotto forma di supporto al reddito (e conseguentemente ai consumi personali in regime di inflazione) che monetario.
E che qualcosa sia già in fase di prezzatura lo mostrano questi due grafici finali,
il primo dei quali certifica come dai minimi di metà agosto, il KraneShares CSI China Internet Fund - Etf che comprende i titoli di 53 aziende tech cinesi quotate negli Usa - abbia segnato un +21%. La certezza di nuova stimmy money in arrivo pare più forte della paura per la furia regolatoria di Xi Jinping. Ma la seconda immagine invita alla cautela: la smart money non sta comprando quest’ultima fase di rimbalzo azionario. Come dire, occorre stare ancora un po’ peggio per tornare a stare meglio. Il 27 ottobre scopriremo quanto sta male il Pil Usa. E, conseguentemente, quanto sta per migliorare la salute di Wall Street. Meno male che noi viviamo in una roccia di solidità economica come l’Italia, dove le stime del 6% di Pil paiono scolpite come tavole della legge. Di bilancio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Argomenti