Se l’Italia entra in guerra, chi verrebbe chiamato alle armi? Ecco cosa dice la legge.
C’è sempre più apprensione in Europa per lo spettro di una guerra su larga scala, tanto che è in definizione un piano di riarmo. Un clima di tensione a cui i cittadini guardano con preoccupazione, temendo la chiamata alle armi nel caso in cui l’Italia dovesse entrare in guerra (contro la Russia o qualsiasi altro Paese).
A tal proposito, non è passato inosservato l’aggiornamento delle liste di leva che i Comuni stanno completando in questi giorni, per quanto - come abbiamo già avuto modo di spiegare - non c’entra nulla con le tensioni internazionali a cui stiamo assistendo. Le liste di leva, nonostante il congelamento dell’obbligo di prestare servizio militare, continuano infatti a essere aggiornate ogni anno e non incidono su un eventuale chiamata alle armi in caso di guerra.
Semmai, e speriamo ovviamente non succeda, l’Italia dovesse essere coinvolta in una guerra, infatti, non ci sarebbe l’arruolamento obbligato di massa come invece si potrebbe pensare. Le regole vigenti, infatti, definiscono in maniera molto chiara l’identikit di chi verrebbe arruolato come soldato e mandato al fronte.
Non i cittadini maschi, maggiorenni e in condizione di poter combattere come invece si potrebbe pensare.
L’Italia può entrare in guerra?
Visto quanto stabilito dall’articolo 11 della Costituzione, l’Italia non può mai ricorrere a un intervento bellico per offendere la libertà degli altri popoli, o come mezzo di risoluzione dei conflitti.
Una tale disposizione, tuttavia, non esclude la chiamata alle armi nel caso in cui sia necessario difendere il Paese da una minaccia esterna. Un’aggressione sul nostro territorio, dunque, farebbe immediatamente scattare l’offensiva delle nostre Forze Armate, con l’Italia che di fatto entrerebbe in guerra.
Una probabilità che a oggi, guardando anche agli equilibri geopolitici, sembra essere comunque remota.
Chi dovrebbe andare in guerra?
Guardiamo a cosa dice un altro articolo della Costituzione, il 52, di cui il comma 1 recita:
La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.
Una disposizione che di fatto sta a significare che è comunque un dovere primario per il cittadino, al di sopra di tutti gli altri, intervenire per la difesa della Patria. Ma questo vuol dire che bisognerà intervenire attivamente, anche imbracciando le armi, qualora l’Italia dovesse entrare in guerra? Non proprio. Il secondo comma del suddetto articolo, infatti, recita:
Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici.
Il servizio militare, dunque, è “obbligatorio” da Costituzione, la quale tuttavia rimanda alla legge la definizione di “limiti” e “modi”. Ed è proprio la legge - la n°226 del 23 agosto 2004 - che ha eliminato quest’obbligo, introducendo disposizioni recanti la “sospensione anticipata del servizio obbligatorio di leva e disciplina dei volontari di truppa in ferma prefissata, nonché delega al Governo per il conseguente coordinamento con la normativa di settore”.
Oggi, dunque, il reclutamento nelle Forze Armate è volontario, per un periodo che va da 1 anno (VFP1) a 4 anni (VFP4) con la possibilità di diventare effettivi al termine di un tale periodo.
Per quanto riguarda il servizio di leva, l’Istituto viene regolato dal codice di ordinamento militare, di cui al d.lgs 66/2010, mentre il D.P.R. 90/2010 ne regolamenta gli aspetti applicativi. Dunque, per capire se l’obbligo di leva, con la relativa chiamata alle armi, potrebbe essere ripristinato in caso di guerra, possiamo fare riferimento a quanto spiegato dall’articolo 1929 del codice militare, recante disposizioni per la “sospensione del servizio obbligatorio di leva e ipotesi di ripristino”.
Nel dettaglio, qui nel primo comma si legge che “le chiamate per lo svolgimento del servizio obbligatorio di leva sono sospese a decorrere dal 1° gennaio 2005”.
Tuttavia, come spiega il secondo comma, il servizio di leva potrebbe anche essere ripristinato - con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri - “qualora il personale volontario in servizio è insufficiente e non è possibile colmare le vacanze di organico in funzione delle predisposizioni di mobilitazione”. Ma chi verrebbe richiamato alle armi? La “chiamata” riguarderebbe “il richiamo in servizio di personale militare volontario cessato dal servizio da non più di cinque anni”.
In quali casi ci sarebbe una tale chiamata? Gli eventi che porterebbero al ripristino dell’obbligo di leva sono i seguenti:
- se è deliberato lo stato di guerra ai sensi dell’articolo 78 della Costituzione;
- se una grave crisi internazionale nella quale l’Italia è coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza a una organizzazione internazionale giustifica un aumento della consistenza numerica delle Forze armate.
Nel suddetto articolo viene anche specificato - nel terzo comma - che neppure nei suddetti casi sarebbe possibile chiamare - per colmare le vacanze di organico - gli appartenenti alle Forze di Polizia a ordinamento civile (Polizia di Stato, Polizia penitenziaria e Polizia locale) e al Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco. Questi, dunque, sarebbero esclusi dalla chiamata alle armi.
Sarebbero, invece, chiamati alle armi tutti gli appartenenti alle Forze Armate (Esercito, Marina e Aeronautica) e alle Forze di Polizia a ordinamento militare (Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza), così come pure coloro che hanno ormai cessato il servizio presso uno dei suddetti corpi ma da meno di cinque anni.
È possibile rifiutare la chiamata in guerra?
Chi quindi decide di tentare la carriera militare è bene che sia informato su una tale possibilità: qualora l’Italia dovesse prendere parte a un conflitto armato, non ci si potrà opporre a una eventuale chiamata.
Proprio per il carattere volontario dell’arruolamento, infatti, non sarebbe neppure possibile invocare l’obiezione di coscienza. Gli unici casi in cui ci si potrebbe rifiutare sono quelli in cui lo stato di salute del militare non permetta di andare in guerra: si pensi, ad esempio, al militare gravemente ammalato, come pure al caso della militare in gravidanza.
L’esercito dei riservisti
Negli ultimi giorni poi è tornata al centro del dibattito politico la proposta di istituire in Italia una “riserva militare”, composta da volontari civili o ex militari da affiancare alle Forze Armate in caso di emergenza. L’iniziativa, già prevista da una legge del 2022 mai attuata, è stata rilanciata dal ministro della Difesa Guido Crosetto, che ha ribadito come i riservisti non servano per “fare la guerra”, ma per supportare la Difesa in scenari eccezionali.
La riserva ausiliaria, che potrebbe arrivare a contare fino a 10mila volontari su base regionale, dovrebbe intervenire in caso di guerra, crisi internazionale o stato di emergenza, con compiti di mero supporto logistico e cooperazione civile-militare.
Nonostante la legge delega prevedesse l’adozione dei decreti attuativi entro l’agosto 2023, il termine è stato prorogato al 2026 e il corpo non è ancora operativo. Intanto, il tema ha acquisito nuova urgenza dopo lo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas, e soprattutto con la difficoltà di trovare un accordo per la pace in Ucraina, e trova spazio anche nel Documento programmatico della Difesa 2023-2025.
Resta però da chiarire come sarà strutturata la riserva, con quali fondi sarà finanziata e quali incentivi verranno previsti per renderla attrattiva. In altri paesi, come Israele, Regno Unito e Stati Uniti, modelli simili sono già attivi e funzionano con successo; l’Italia riuscirà a replicare?
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