Le energie rinnovabili sono sicuramente uno temi principali almeno da quindici anni. Con la loro maggiore importanza, hanno ancora senso investire nelle azioni petrolifere?
Le azioni petrolifere costituiscono da sempre un’area molto importante a livello globale. Le famose «sette sorelle» americane (Exxon (ora ExxonMobil), Mobil (ora ExxonMobil), Chevron, Gulf Oil (ora Chevron), Texaco (ora Chevron), BP e Shell) per lungo tempo hanno stazionato ai primi posti tra le imprese mondiali per ricavi e anche capitalizzazione di Borsa.
Tanto per intenderci, ancora nel 2011 due società petrolifere, l’americana Exxon e la cinese Petrochina, erano rispettivamente prima e terza tra le società con maggiore capitalizzazione di Borsa al mondo e tra le prime dieci ben quattro erano aziende petrolifere (le altre due erano Royal Dutch Shell e Chevron).
Nell’ultimo decennio, però, le cose hanno iniziato a cambiare radicalmente. Questo è dovuto in buona parte all’avvento sempre più massiccio delle energie rinnovabili e alla maggiore guerra alle emissioni.
L’impatto delle energie rinnovabili sul mercato
Come tema di investimento, le energie rinnovabili non certo una novità dell’ultim’ora - basta ricordare nella sola Italia gli incentivi al fotovoltaico, che risalgono almeno alla metà degli anni 2000, e poi gli altri incentivi legati alle rinnovabili.
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Sono almeno quindici anni che si parla di rinnovabili come investimento. E anche in Borsa sono sbarcate centinaia di società del settore, sia produttori puri di energia, sia produttori di componentistica, come ad esempio pannelli fotovoltaici, turbine e pale eoliche, componentistica idroelettrica e molto altro.
C’è comunque da specificare che non tutte queste società hanno ottenuto rendimenti spettacolari in questi anni.
Se prendiamo infatti l’ETF iShares Global Clean Energy, il più grande tra quelli quotati in Italia, vediamo che tra il 2007 e il 2012 arrivò a perdere oltre l’80% del suo valore. Dopo una leggera ripresa, per tutto il periodo tra il 2013 e il 2018, pur con qualche oscillazione, la performance è stata praticamente nulla.
Qualcosa, però, è cambiato nell’ultimo periodo. Dalla fine del 2018 ad oggi, nonostante il crollo del marzo 2020, le quotazioni sono quasi triplicate. Solo nell’ultimo anno l’ETF ha fatto oltre +90%.
Insomma, da un punto di vista puramente borsistico sembra che questo tema di investimento negli ultimi due decenni abbia raccolto l’interesse degli investitori troppo presto, quando l’industria non era ancora matura ed economicamente sostenibile. Dopo la dovuta pulizia, però, le cose sono cambiate ed ora sembra iniziato un rialzo più concreto e sostenibile.
Del resto, solo per fare un esempio. oggi l’industria del fotovoltaico è enormemente più competitiva rispetto a quindici anni fa. Senza poi considerare tutto il discorso della mobilità elettrica, l’autoproduzione, il risparmio energetico. Insomma, ovunque si guardi e si ascolti oggi si percepisce chiaramente che questa industria non è più solo alla ricerca spasmodica di incentivi pubblici che coprano le inefficienze, ma inizia ad essere sempre di più una concreta via alternativa.
Il destino dell’industria petrolifera
In questo contesto, non c’è dubbio che l’industria petrolifera faccia la figura di quella «brutta, sporca e cattiva».
Il petrolio e i suoi derivati sporcano, inquinano, non sono rinnovabili, esauriscono le risorse del pianeta.
Questo ci porta a domandarci se le società petrolifere abbiano ancora un futuro, visto che l’interesse degli investitori negli ultimi anni sembra essersi spostato e anche i risultati economici sono stati tutt’altro che interessanti.
Il prezzo del petrolio, che aveva superato i 145$ nel 2008, è progressivamente sceso negli anni seguenti, fino a stabilizzarsi nel range 40$-60$ dal 2015 in avanti. Le società petrolifere hanno progressivamente perso capitalizzazione nel corso degli anni e anche i risultati economici non sono stati entusiasmanti.
Prendendo ad esempio Exxon, la più grande compagnia petrolifera americana e mondiale e una delle meglio gestite: ha chiuso il 2020 con ricavi a 179 miliardi di dollari contro un picco di 279 miliardi nel 2018, una perdita operativa di 30 miliardi e una netta di 22 miliardi, mentre nei cinque anni precedenti i profitti netti erano sempre stati tra i 10 e i 20 miliardi di dollari.
Peraltro, i risultati degli ultimi cinque anni non rendono nemmeno bene l’idea. Guardando l’utile per azione (EPS), nel 2020 c’è stata una perdita di 5,25 dollari per azione, contro un EPS di 4,88 nel 2018. Ma nel 2012 l’EPS era stato di 9,70 dollari e nel 2008 di 8,66 dollari.
Rispetto allo scorso decennio le cose sono decisamente cambiate. E questa è Exxon, appunto una delle società meglio gestite. Per le altre, le cose sono andate anche peggio.
Investire in azioni petrolifere ha ancora senso?
È quindi il momento di abbandonare questo settore, come nei decenni e secoli passati in Occidente si sono abbandonate/ridimensionate, ad esempio, le aziende tessili/cotoniere, quelle siderurgiche o del carbone, che in specifici periodi erano tra le più grandi ed interessanti e poi o si sono estinte o, per sopravvivere, si sono concentrate in uno o pochi player?
Come sempre ci vuole equilibrio e le conclusioni non vanno prese troppo in fretta.
Dopo le difficoltà di questi anni il petrolio si sta riprendendo. Nel 2019 il prezzo salì del 35% circa rispetto all’anno precedente, nel 2020 abbiamo avuto l’anomalia Covid che ha portato ad una correzione (-20% a fine anno), ma già in questo 2021 registriamo un +30% e ci siamo riportati stabilmente sopra i 60$.
Il petrolio, nonostante tutto, resta ancora la materia prima essenziale per la nostra economia. La mobilità elettrica è in crescita esponenziale, ma ha ancora numeri risicati se confrontati con quella dei motori tradizionali. La stessa produzione elettrica richiede ancora oggi petrolio e gas.
Le stesse società petrolifere stanno progressivamente migliorando i loro conti. Le recenti trimestrali di Total e Royal Dutch Shell presentate in queste settimane sono state molto positive, sebbene con i segmenti raffinazione e marketing sempre in difficoltà. Total ha comunque aumentato i profitti nel primo trimestre 2021 del 69% rispetto allo stesso periodo 2020, Royal Dutch Shell del 13%.
Exxon, di cui prima abbiamo elencato le difficoltà, ha un management che crede ancora nel futuro dell’industria, tanto che nonostante l’enorme perdita del 2020 ha comunque aumentato leggermente il dividendo, come fa ormai da decenni.
Del resto, con le difficoltà del 2020 sono state tagliate spese e programmi di investimento. Con il risultato che l’industria nel suo complesso non si trova oggi con un grande eccesso di capacità produttiva.
Ma, soprattutto, c’è una cosa da considerare. Non tutte le aziende petrolifere stanno restando a guardare in questa famosa «transizione ecologica».
Se il greggio e il gas restano ancora il core business di tutte le compagnie petrolifere, molte stanno progressivamente aumentando gli investimenti nel rinnovabile.
In Italia ERG, che per decenni è stato uno dei maggiori raffinatori e venditore di prodotti petroliferi, oggi è passato alla produzione integrale di energia da fonti rinnovabili. Sebbene nessun’altra società abbia fatto un cambiamento così drastico, leggendo gli annual report delle aziende del settore vediamo che quasi tutte stanno creando e/o sviluppando divisioni apposite per l’energia rinnovabile.
Total ha come target il raggiungimento di 100 GW di potenza installata per produrre energia da fonti rinnovabili (parliamo di decine di miliardi di investimenti, se non di più). La nostra ENI ha oggi solo 1 GW di potenza installata rinnovabile, ma ha l’obiettivo di arrivare a 60 GW per il 2050, con il settore che è stato dichiarato dal management centrale nella futura strategia.
Non ci sarebbe da stupirsi se tra 20-30 anni vedessimo le attuali major petrolifere essere anche le major della produzione rinnovabile. I capitali li hanno, le competenze anche, il petrolio continuerà ad essere ancora per qualche decennio una «mucca da mungere» per finanziare gli investimenti rinnovabili.
Le azioni petrolifere hanno sicuramente un futuro, a patto di privilegiare comunque quelle che hanno anche piani precisi sulle rinnovabili.
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